martedì 4 novembre 2008

testi in bisiac tra '800 e '900



Testi bisiachi tra Ottocento e Novecento



COS CHE CATARÉ
INDICE:


1) "TRE POESIE" di LEONARDO BRUMATI (1837)
2) "DETTI SENTENZIOSI" DI LEONARDO BRUMATI (1852)
3) "LA SAGRA DEI DISCOLZI" DI PIERO CAUZER (1882)
4) TESTI DI FILIPPO E GIOVANNI CECHET (1893 - 1894)
5) "L'ORA DE AMOR" DI VALENTINO BATTILANA (1898)
6) "LA STRIGA BRUSADA VIVA" (1901)
7) "LA VITA MILITAR" DI ANTONIO COLOBIG (1904)





"TRE POESIE" DI LEONARDO BRUMATI (1837)


Leonardo Brumati nacque a Ronchi dei Legionari il 4 agosto 1774 da un’umile famiglia di artigiani. Come ricordava Silvio Domini nelle belle pagine a lui dedicate e da cui abbiamo tratto le note seguenti, dimostrando fin da piccolo una non comune intelligenza, venne mandato a studiare da Giuseppe Berini, anch’esso di origine ronchese, importante archeologo, storico e traduttore di classici, nato nel 1762 e morto nel 1820. Leonardo Brumati compì i suoi studi superiori a Udine e successivamente, per meriti personali, fu invitato a Venezia dove ebbe modo di perfezionare le materie, sopratutto di tipo scientifico, per le quali era naturalmente portato. Pochi mesi dopo la caduta della Serenissima, il 14 gennaio 1837, ricevette a Gorizia l’ordine sacro.
A Vermegliano, un piccolo paese presso Ronchi dei Legionari, fu cappellano esposito. Presso il "Ginnasio" di Monfalcone, in cui insegnarono anche Giuseppe Berini, Alessandro Stagni, Domenico Scocchi e Francesco Cosani, dove si distinse per le sue doti di insegnante di fisica, scienze naturali e grammatica latina. L'istituzione scolastica ebbe, però, vita breve: fu difatti soppressa dall’Austria che vedeva, in questi insegnanti di vedute assai avanzate per l’epoca, abituati ad intrattenere contatti con i maggiori studiosi europei, dei fautori di idee libertarie e antiaustriache. Il Brumati, di conseguenza, fu a lungo osteggiato tanto da spingerlo ad un soggiorno, probabilmente forzato, in Istria. Rientrato in questi luoghi, che divennero negli anni l’oggetto principale di tanti appassionati e precisi studi, divenne cappellano festivo a Staranzano. Rimase però a vivere in una sua casa che possedeva nel borgo ronchese di San Vito e a Vermegliano dove, tra l’altro, creò un suo Orto Botanico visitato da prestigiosi studiosi italiani e stranieri. Contatti che sono testimoniati anche da un interessantissimo epistolario con lettere del chimico francese Gaj Lussac, del conchigliologo Buillet, del celebre professor Bertoloni di Bologna, dello scienziato tedesco Guglielmo Schiede di Cassel d’Assia, del botanico triestino Bortolo Biasoletto, del filologo Jacopo Pirona (autore del grande vocabolario friulano, che si era avvalso del Brumati per tradurre esattamente in italiano nomi di piante ed animali del vicino Friuli), e della poetessa friulana Caterina Percoto, che soggiornava spesso a Ronchi dei Legionari. Tra questi, inoltre, anche uno dei massimi botanici tedeschi, il Reichenbach (1793-1879) che gli dedicò il nome di una pianta che cresce lungo le rive del Natisone, il “Leontodon Brumati” appunto. Fu tra i fondatori dell’Orto Botanico di Urbino e, per la sua opera di ricercatore instancabile, preparatissimo, ottenne l’encomio solenne dell’Accademia delle scienze di Francia e un ambito riconoscimento della Società dell’Agricoltura di Milano.
Presso le Biblioteche di Udine e Gorizia sono conservate più di una ventina di sue opere manoscritte, ma soltanto due suoi lavori, escludendo i numerosi articoli apparsi su giornali o riviste del tempo, furono pubblicati in vita: il Catalogo sistematico delle conchiglie terrestri e fluviali osservate nel Territorio di Monfalcone edito a Gorizia nel 1838 dalla tipografia Paternolli, e la lunghissima ode anacreontica, intitolata Per Messa Novella, dedicata a Don Giovanni Battista Nob. Dottori e fatta stampare a Udine nel 1838 da Padre Pietro Benedetti presso la tipografia Murero.
Il Brumati sentì il bisogno di diffondere fra il popolo, dal quale proveniva, una cultura pratica - specialmente nel campo dell’agricoltura - che era frutto delle sue esperimentazioni, dei suoi studi e, se si vuole, della sua notevole erudizione. E nella prima metà del secolo scorso fu lui il personaggio trainante della comunità contadina e non solo di questa, fu lui il consigliere, il burbero amico, il confortatore, il maestro. Arrivava sul suo calés, trainato dal musset, per andare da una stalla all’altra, dalle vigne alla palude, dalla chiesa alla canonica-scuola con la tonaca impolverata e la barba incolta. Si rimboccava le maniche per insegnare, lavorando insieme ai gruppi che lo aspettavano o lo mandavano a chiamare. E’ merito suo se le donne staranzanesi (e quelle vermeglianesi) iniziarono la raccolta di quelle erbe e di quelle piante che, per diversi scopi, venivano preparate e portate a vendere a Trieste. L’opera di questo uomo genuino - particolare per quei tempi - favorì pure l’economia del paese, ma soprattutto gettò le basi di quelle idee e aspirazioni nuove (compito difficile in una comunità contadina e conservatrice!) che furono lievito sociale e culturale per molti decenni.
Era creduto e ascoltato, perché la sua azione disinteressata era ben diversa da quelle di coloro che non si ponevano neppure il problema dell’emancipazione delle classi subalterne e che curavano soltanto gli interessi personali e la conservazione dei privilegi. Con la sua voce tonante, tramandano i vecchi, si esprimeva nel colorito e vigoroso dialetto antico, mezzo insostituibile per entrare nelle menti di poveri analfabeti o quasi, piuttosto restii alle innovazioni; dialetto che egli sentì il bisogno di fissare sulle pagine dei suoi interessanti e precisi cataloghi sistematici della flora e della fauna del Territorio. Al Brumati sono stati attribuiti anche gli ottanta Detti sentenziosi, proverbi, adagi e pronostici de' Contadini del territorio di Monfalcone che più frequentemente si sentono, possibilmente esposti nel vernacolo ivi usato, salvo qualche parola cambiata a motivo di decenza, pubblicati anonimi alle pp. 53 e 54 del "Calendario per l'anno bisestile 1852 dell I.R. Società Agraria di Gorizia.
Mi sembra qui importante, dato l'interesse della scoperta, riportare per intero l'articolo che Silvio Domini ha dedicato al rinvenimento di tre poesie inedite del Brumati. Un articolo che contiene inoltre numerose ed importanti considerazioni riguardo al tipo di bisiàc impiegato: "Catalogando l’archivio dei notai Cosolo quando sono arrivato agli atti del 1830, in mezzo ad un fascicolo di contratti e testamenti, legato con un nastrino verde, mi è saltato fuori un fascicoletto di tre sole pagine, legato sul dorso con un cordoncino bicolore. Alla vista di tre composizioni poetiche in dialetto scritte con l’orignale calligrafia di Leonardo Brumati, la mia sorpresa è stata enorme. In calce al primo foglio, con altra scrittura minuta, la seguente scritta: “Manoscritti di Leonardo Brumati del 1837 e da me posseduti - Giuseppe Cosolo”.
Confesso di essermi emozionato, in quanto questa scoperta sposta l’inizio della letteratura bisiaca di molto indietro: il primo verseggiatore in bisiaco che finora si conosceva era il foglianino, Pietro Cauzer, che nel 1882 compose una serie di quartine, che lasciano molto a desiderare metricamente e di scarso valore letterario, per la “Sagra dei discolzi”.
La prima composizione del Brumati è un sonetto, scritto per le nozze di Giuseppe Cosolo con Elisabetta Lucia Maria Vio, avvenute nel 1789. Gli endecasillabi hanno rima AC BD nelle due quartine ed AC nelle due terzine: la metrica è perfetta e il bisiaco è quello usato a cavallo tra Sette e Ottocento.
Devo far notare che lo stesso anno dello sposalizio del Cosolo, il Brumati venne consacrato sacerdote: così si spiega questa poesia nata dalla loro amicizia per essere stati quasi coetanei.
La seconda poesia, intitolata “Morosi”, è composta da quattro quartine di perfetti ottonari con rima AD BC; in essa si rivela tutta la verve dell’autore, arguzia che già si conosceva nella citata “Ode anacreontica”.
La composizione "Morosi" non è databile con precisione, comunque sta nell’intervallo tra il 1798 e il 1837.
La terza composizione, intitolata umoristicamente “Mussa vernacola” (quel “Mussa” è una scherzosa trasformazione di “Musa”) è ancora un sonetto non caudato: le due quartine sono rimate AC BD e le due terzine AB, con C della prima e A della seconda che amalgnao i sei endecasillabi. L’argomento è serio: l’Autore si sfoga con i ricchi possidenti che avevano tentato, contro il suo parere di esperto e con nessun successo, la coltivazione del riso cinese o a secco, rovinando povera gente di San Canziano e di Staranzano e portando le zone malsane a ridosso dei paesi. Questa poesia è stata scritta senz’altro nel 1837. E’ pensabile che l’anziano notaio proprio nel 1837 abbia chiesto al Brumati di scrivergli i testi delle tre composizioni poetiche: la prima lo riguardava direttamente, le altre due forse gli piacevano.
Non sapremo forse mai quante e quali siano state le poesie del Brumati: io penso molte.
Ci sono bellissimi vocaboli come “felize”, “finamente”, “zoventù”, “corazo”, “solache”, “noma”, “cunsilgi”, “feva”, ecc. che ci confermano la continuità nei secoli di termini che sono arrivati fino a noi e che vengono ancora usati da quelli che parlano bisiaco. Mi fermo ancora un attimino soltanto sulle voci verbali “diseuo”, “andeuo” e “desfauo”, dove la “u” sta al posto della “v”, come si usava negli scritti veneti anche di molti secoli passati; queste voci, nell’uso parlato, avevano perso molto tempo prima la vocale finale, diventando “andéu” e “diséu”, uso che perdurò fino alla fine del secolo scorso e anche oltre, per trasformarsi col tempo, anche nell’uso scritto, in “andevo” e “disevo”. E si potrebbe continuare, perché le tre poesie offrono molti spunti sull’evoluzione del nostro dialetto.
Per concludere dirò che è stata per me e, immagino!, per quelli che si interessano di letteratura bisiaca una grande e fortunosa scoperta, che non solo dà modo di far principiare la desiderata antologia con un autore degnissimo che iniziò a scrivere in dialetto nel 1798, ma anche di far cadere la teoria dell’esistenza di due parlate dialettali venete nel Territorio storico di Monfalcone".






Sonet

A Lùzia e Bepi Cosul
Sposi


Anca ti Lùzia te xe maridada,
felize mi te auguro la vita
finamente ti te à coronada
quela speranza che la era zita


cignuda ta ’l to cor e ben serada.
Dès bogna che te pense a far fioreti
parché la zoventù te à donada
a Bepi che al speta bei fioleti


par far faméa che la vaghe vanti drita
su quela strada segnada del Signor.
E ti Bepi corazo, ta la vita


xe anca spini e no solache fior.
Ma tut passa in sto mondo, passa via,
resta noma che al grando, vero amor.



Sonetto. Anche tu, Lucia, ti sei maritata, / felice io ti auguro la vita / finalmente hai coronata / quella speranza che silenziosa // tenevi nel cuore ben custodita./ Adesso bisogna che tu pensi a far fioretti / poiché la gioventù hai donato / a Giuseppe che aspetta bei figlioli // per metter su famiglia che vada avanti diritta / lungo quella strada segnata dal Signore. / E tu Giuseppe coraggio, nella vita // ci sono anche le spine e non soltanto fiori. / Ma tutto passa in questo mondo, passa via, / rimane soltanto il grande, vero amore.






Morosi


L’altro zorno al mus se ferma
e no zova la vis’ceta
mi desmonto e vardo a dreta
e de bot ò la conferma


drio la macia la cavala
de sior Pinperle passona
chieta chieta, bona bona,
e al me mus, lu no no fala,


al te zira svelt a dreta
ma sul oro li xe un fos
e rucando a più no pos
al rebalta la careta.


Quando che ghe ciapa i sete
i morosi i fa conpagno
no i te scolta gnanca al lagno
e i cunsilgi de mi prete.


Fidanzati. L'altro giorno l'asino si ferma / e a nulla serve il frustino / io scendo e, guardando alla mia destra, / capisco subito il perché: // oltre agli alberi la cavalla / del signor Pinperle bruca l'erba / quieta quieta, buona buona / e infallibile il mio asino // gira veloce a destra / ma, sul margine, lì c'è un fosso / e tirando a più non posso / rovescia il carretto. // Così, quando sragionano, / i fidanzati si comportano allo stesso modo: / non danno più ascolto né alle lagnanze / né ai consigli di me prete.




Mussa Vernacola


Un tenp un bon udor la bavisela
sufiava su de la marina cara
ma dès cu’i risi, questa la é bela,
vien su una spussa che l’é propio rara.


No i à vulù scoltarme co diseuo
de no piantar quei risi ta ’l paludo
e i siori quando che mi lazò andeuo
i me feva scanpar como un por gudo


par guantarme de bot in ta la nassa.
Ma mi cun arte desfauo la madassa
scrivendoghe a Gurizia le reson


che no le à valù, parché al paron
l’é senpre lu che al vinze e intant al por
al à magnà le vache e al so lavor.




Mussa vernacola. Un tempo un buon odore la brezza leggera / portava su dalla marina cara / ma ora con le risaie, questa è bella, / arriva una puzza davvero rara. // Non mi hanno voluto ascoltare quando ripetevo / di non coltivare il riso nella palude / e i ricchi, quando mi recavo laggiù, / mi facevano scappare come un povero pesce // per cercare di farmi poi finire nella rete. / Ma io con arte disfacevo la matassa / scrivendo a Gorizia le ragioni // che però non sono servite, perché il padrone / alla fine è sempre lui a vincere e intanto il povero / ha perduto le mucche ed il suo lavoro.



I "DETTI SENTENZIOSI" DI LEONARDO BRUMATI (1852)


Gli ottanta Detti sentenziosi, proverbi, adagi e pronostici de' Contadini del territorio di Monfalcone che più frequentemente si sentono, possibilmente esposti nel vernacolo ivi usato, salvo qualche parola cambiata a motivo di decenza, pubblicati anonimi alle pp. 53 e 54 del "Calendario per l'anno bisestile 1852 dell I.R. Società Agraria di Gorizia, sono - con grande probabilità - da attribuirsi a Leonardo Brumati. Il grande interesse nei confronti del mondo naturale e, di conseguenza, anche alla vita dei contadini e al loro linguaggio, da parte di questo insigne studioso, è stato del resto confermato anche dalla recente scoperta di tre composizioni in dialetto bisiàc di cui una, in special modo, direttamente legata proprio a questi temi.
Ad ulteriore testimonianza del suo amore per la natura ricordiamo qui - ripercorrendo le belle pagine a lui dedicate da Silvio Domini - che a Vermegliano, tra l’altro, il Brumati creò un suo Orto Botanico visitato da prestigiosi studiosi italiani e stranieri. Contatti che sono testimoniati anche da un interessantissimo epistolario con lettere del chimico francese Gaj Lussac, del conchigliologo Buillet, del celebre professor Bertoloni di Bologna, dello scienziato tedesco Guglielmo Schiede di Cassel d’Assia, del botanico triestino Bortolo Biasoletto, del filologo Jacopo Pirona (autore del grande vocabolario friulano, che si era avvalso del Brumati per tradurre esattamente in italiano nomi di piante ed animali del vicino Friuli), e della poetessa friulana Caterina Percoto, che soggiornava spesso a Ronchi dei Legionari. Tra questi, inoltre, anche uno dei massimi botanici tedeschi, il Reichenbach (1793-1879) che gli dedicò il nome di una pianta che cresce lungo le rive del Natisone, il “Leontodon Brumati” appunto. Fu tra i fondatori dell’Orto Botanico di Urbino e, per la sua opera di ricercatore instancabile, preparatissimo, ottenne l’encomio solenne dell’Accademia delle scienze di Francia e un ambito riconoscimento della Società dell’Agricoltura di Milano.
Presso le Biblioteche di Udine e Gorizia sono conservate più di una ventina di sue opere manoscritte, ma soltanto due suoi lavori, escludendo i numerosi articoli apparsi su giornali o riviste del tempo, furono pubblicati in vita: il Catalogo sistematico delle conchiglie terrestri e fluviali osservate nel Territorio di Monfalcone edito a Gorizia nel 1838 dalla tipografia Paternolli, e la lunghissima ode anacreontica, intitolata Per Messa Novella, dedicata a Don Giovanni Battista Nob. Dottori e fatta stampare a Udine nel 1838 da Padre Pietro Benedetti presso la tipografia Murero.
Il Brumati sentì il bisogno di diffondere fra il popolo, dal quale proveniva, una cultura pratica - specialmente nel campo dell’agricoltura - che era frutto delle sue esperimentazioni, dei suoi studi e, se si vuole, della sua notevole erudizione. E nella prima metà del secolo scorso fu lui il personaggio trainante della comunità contadina e non solo di questa, fu lui il consigliere, il burbero amico, il confortatore, il maestro. Arrivava sul suo calés, trainato dal musset, per andare da una stalla all’altra, dalle vigne alla palude, dalla chiesa alla canonica-scuola con la tonaca impolverata e la barba incolta. Si rimboccava le maniche per insegnare, lavorando insieme ai gruppi che lo aspettavano o lo mandavano a chiamare. E’ merito suo se le donne staranzanesi (e quelle vermeglianesi) iniziarono la raccolta di quelle erbe e di quelle piante che, per diversi scopi, venivano preparate e portate a vendere a Trieste. L’opera di questo uomo genuino - particolare per quei tempi - favorì pure l’economia del paese, ma sopratutto gettò le basi di quelle idee e aspirazioni nuove (compito difficile in una comunità contadina e conservatrice!) che furono lievito sociale e culturale per molti decenni.
Era creduto e ascoltato, perché la sua azione disinteressata era ben diversa da quelle di coloro che non si ponevano neppure il problema dell’emancipazione delle classi subalterne e che curavano soltanto gli interessi personali e la conservazione dei privilegi. La sua voce tonante, tramandano i vecchi, si esprimeva nel colorito e vigoroso dialetto antico, mezzo insostituibile per entrare nelle menti di poveri analfabetti o quasi, piuttosto restii alle innovazioni; dialetto che egli sentì il bisogno di fissare sulle pagine dei suoi interessanti e precisi cataloghi sistematici della flora e della fauna del Territorio.
Per quanto riguarda i Detti sentenziosi, quel che appare più evidente - rispetto alle poesie ritrovate - è un tentativo di rendere maggiormente comprensibile il dialetto ai lettori attraverso un estesa italianizzazione dei termini impiegati volgendosi anche verso modelli che allora potevano apparire "alti", come appunto il veneziano. Nonostante questo, vi sono - oltre a numerosissimi termini - diverse spie che possono ricondurre alla parlata ottocentesca come l'uso di "ha" al posto del più moderno "ga" o l'uso frequente di "è" al posto di "xe". Troviamo parole come "scomenza" per "comincia" testimoniate ancora dal Bozzi e "ulìu" (qui scritto "uliv") assieme a molte altre. L'unico punto oscuro è rappresentato da "bauele" che potrebbe però essere anche un errore di trascrizione. A meno che non si tratti di qualche specie animale di cui non si sia tramandato il nome (ma è un po' improbabile visto la relativa vicinanza temporale) possiamo tentare qui un'ipotesi. La suddetta parola, come abbiamo detto, non compare nel nostro Vocabolario ma, dato il contesto, potrebbe forse trattarsi di "bartuele" nel senso di "bandelle, cerniere degli scuri", che possono a volte cigolare in corrispondenza dell'approssimarsi della pioggia.
Rimandiamo invece, per mancanza di spazio, al libro che raccoglie i proverbi della Bisiacaria (curato dagli autori del Vocabolario fraseologico del dialetto bisiàc) per quanto riguarda le spiegazioni dei detti qui di seguito riportati (n.d.r.).



Detti sentenziosi, proverbi, adagi e pronostici

de' Contadini del territorio di Monfalcone, che più frequentemente si sentono possibilmente esposti nel vernacolo ivi usato, salvo qualche parola cambiata a motivo di decenza




1 Delle Calende no me n'incuro, pur che s. Paolo no fazza scuro.

2 Anno de neve, anno de gran.

3 Anno de erba, anno de sterco.

4 Inverno fredo e nevoso fa sperar buoni raccolti.

5 Zenar fredo dà buon segno.

6 S. Bastian colla viola in man.

7 Santa Gnesa tutta basa mezza mesa.

8 S. Vincenzo della gran freddura, s. Lorenzo della gran caldura, l'uno e l'altro poco dura.

9 La Madona ceriola, che dal fredo semo fora.

10 Se il dì delle candele è bon, l'orso vien fora della tana e torna disendo: dopo 'l bon vien el tristo, se è tristo va fora: dopo el tristo vien el bon.

11 Fevrarut pezor de tut.

12 Formento morbedo in fevrar, tropa paja, poco gran.

13 Marzo suto, Avril bagnà, Marzo temperà, beato el contadin che ha semenà.

14 Formenton raro, impina il granaro.

15 Zapeme pizzul, tireme su grando.

16 Se piove de la Sensa, se perde la semenza.

17 Se se pianta i fasoi il dì delle rogazion, le forbese li magna soto tera.

18 Se piove a s. Barnabà, la uva se ne va.

19 La notte de s. Zuan, el mosto entra nel gran.

20 Quando 'l sorgoros mostra 'l muso, la brava contadina fila il fuso.

21 La prima piova d'Agosto rinfresca 'l bosco.

22 El secco tra le Madone è pezzo de tuto.

23 S. Rocco dà la chiave a ogni pitocco, s. Simon la torna al paron.

24 La montana de s. Michel no la resta mai in ciel.

25 S. Simon strazza vele.

26 S. Simon la vera seminion.

27 Chi tardi semina e l'indovina
nol conti alla vicina.

28 Chi varda la luna no fa fortuna.

29 Varda 'l teren quando 'l va ben.

30 A s. Martin ogni mosto deventa vin.

31 A s. Andrea il porcel sulla brea.

32 L'inverno del fonte, l'istà del monte.

33 Bondanza in mar, caristia in tera,
bondanza in terra, caristia in mar.

34 Chi troppo brazza gnente strenze.

35 Chi va pian va san.

36 Quando una roba va ben quanto che basta,
no ghe tetar de drio che la se guasta.

37 Bezzi e fede manco che se crede.

38 Bezzi e santità la metà della metà.

39 Pan fresco, legni verdi, e parona zovena rovina la casa.

40 Scarpa grossa paga tutto.

41 Duro con duro no fa bon muro.

42 Quando la piova scomenza al mezzo dì, la dura tutto il dì.

43 Rosso de sera bon tempo se spera,
rosso de mattina piova vicina.

44 Cerchio de sera bon tempo se spera
cerchio de mattina piova vicina.

45 Cerchio lontan piova vicina,
cerchio vicin piova lontana.

46 Fumo che va per tera mostra piova.

47 Sol in socca, o vento o aqua.

48 Lampa in ponente, no lampa per gnente.

49 Le razze sbatte le ale, e le va soto aqua, le mostra piova.

50 Il porco zira colla fascina o colla paja in bocca 'l sinte piova.

51 Le bauele le canta dì e notte, piova sicura.

52 Le cisile sgola raso terra, piova senza fal.

53 Le formighe va in procession, vemo presto piova.

54 El rusignol canta forte? 'l nasa piova.

55 Casca 'l calizin, la caldiera chiapa fogo, segno di piova.

56 La rumatera lavora, presto piova.

57 Nuvoli alti no i dà piova.

58 Le passare va in truppa per le macchie, le sente neviera.

59 Se de Nadal al zogo, de Pasqua al fogo.

60 Uliv bagnà ovi suti, uliv suto ovi bagnadi.

61 La stagion che canta 'l cuc, un'ora bagnà, un'ora sut.

62 Lavoro e ledan, e no le sante man.

63 Chi lavora ha una camisa, chi no lavora ghe n'ha do.

64 Fatto sta che chi lavora magna.

65 L'aquazzo de matina è segno de piova vicina.

66 La papa fa la schiatta.

67 Quando i nuvoli è fatti a lana,
piova dentro la settimana.

68 Chi fa fala, falando s'impara.

69 Le cornacchie ciga, le nasa bora.

70 Salta fora i scorpioni i sinte piova.

71 Bezzi e amicizia sgorba la giustizia.

72 Il pesce grando magna 'l pizzul.

73 Chi le fa le pensa.

74 Scirocco chiaro, tramontana sicura
trattete in mar e non aver paura.

75 Il diaolo nol sarà poi tanto bruto che i lo fa.

76 Can no magna de can.

77 Co lo sterco monta in scagno,
o 'l spuzza, o 'l fa danno.

78 Più pressa che se à, più il diaulo tenta.

79 Chi la fa se l'aspette.

80 Chi pensa mal spesso l'indovina.


*

"LA SAGRA DEI DISCOLZI" DI PIERO CAUZER


Piero Cauzer nacque nella località detta "Cornat" a Fogliano-Redipuglia. Non sono note né la data di nascita né quella di morte e non si conosce nulla nemmeno sulla sua vita. Speriamo che ricerche ancora in corso possano fornire in futuro qualche notizia utile su questo autore. In una pubblicazione di Ranieri Mario Cossar, riscoperta dallo studioso Pier Maria Miniussi, Usanze popolari d'un Comune della provincia di Trieste, edita nel novembre del 1941, è riportato un suo testo del 1882, accompagnato da una gustosa presentazione in bisiàc che qui di seguito riportiamo: "L'ano mileotozento e otantado nel mese de zugno i regazzi d'un borgo de Foian, che i lo ciama Cornat, s'avea metù in testa de 'ver anca lori un bal comòdo quei de la vila.
Alora xè 'nda in podestaria una deputazion de lori, par domandar al permesso del bal.
No essendo al podestà, al capocomun ghe dise: "Cossa volè balar, v'altri cornatari, che se tuti discolzi". E no ghe iera sta dat al permesso, calcolando che lori no iera solventi par le spese.
E l'ora i à parla co l'oste de quel borgo e lui ghe à fat la garanzia.
Al bal xè sta fat, xe vignù tanti foresti che xè sta fat un incasso sul bal che no i se spetava, parchè i foresti credeva proprio par vero che i varia balà discolzi".
Le undici quartine di ottonari non rivestono un gran peso dal punto di vista letterario mentre come documento linguistico (a parte alcune incertezze) offrono un'idea abbastanza precisa di quella che poteva essere la parlata bisiaca - con alcune particolari sfumature che ritroviamo anche nei testi dei Cechet e di Bozzi - nella Fogliano di fine Ottocento.


La Sagra dei Discolzi


Era 'l sabo de la sagra,
se capissi dei discolzi,
sti regazi squasi bolsi
stan slargando al bregàr.


Se lavora dì e note,
par far bel sto gran paese,
e no se varda par le spese,
che ghe tocarà pagar.


La domeniga matina,
tut al borgo xe in festa,
e i à squasi pers la testa
e no i sa più quala far.


Le parone de le case
le xe tute in gran fazende,
preparando le merende,
par i rivadi che sarà.


Là s'un tuti i fogolari
'na galina xe in ta la zita,
par darghe un poc de vita
al magnar de sto gran dì.


Quando sona la canpana,
al disnar xe su la tola,
nissun dise 'na parola,
par la granda comozion.


Al magnar de sto gran zorno,
al xe como quel dei siori,
xe de iusto che anca i pori
una volta à de magnar.


A le quatro ore in punto,
xe rivà la banda intiera
cun dinanzi la bandiera
cu la stema del Cornat.


Qua se bala, qua se salta,
comodo tanti mati,
no pensando a altri fati
che a saltar como cavrioi.


Xe rivada tanta zente,
e anca tanti balarini,
a lassar tanti fiorini
che in ta 'l doman i li spartirà.


Eco al luni de matina,
i xe tuti in ostaria,
par spendar cun ligria
tuti i bezi che xe vanzà.




La Sagra degli Scalzi. Era il sabato della sagra, / degli scalzi si capisce, / questi ragazzi quasi sfiniti / stan allargando per il ballo il tavolato. // Si lavora giorno e notte, / per far bello questo gran paese, / e non si tien conto di tutte quelle spese / che bisognerà poi pagare. // La domenica mattina, / tutto il borgo è in festa, / ed han quasi perso la testa / e non san più che cosa fare. // Le donne nelle case / son tutte affaccendate, / preparando le merende / per coloro che verranno. // Là su tutti i focolari / c'è nella pentola una gallina, / per dare un po' di vita / al cibo di questo gran giorno. // Quando suona la campana, / ed il pranzo è sulla tavola, / nessuno dice una parola / per la grande commozione. // Il cibo di questo gran giorno / è uguale a quello dei signori, / ed è giusto che anche i poveri / per una volta possan mangiare. // Alle quattro in punto, / è arrivata la banda intera / con davanti la bandiera / e lo stemma del Cornat. // Qui si balla, qui si salta / come tanti matti, / non pensando ad altro / che a saltare come caprioli. // É arrivata tanta gente, / e anche tanti ballerini / a lasciare tanti fiorini / che domani ci si spartirà. // Ecco, al lunedì mattina / son già tutti in osteria / per spendere in allegria / tutti i soldi che son avanzati.

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TESTI DI FILIPPO E GIOVANNI CECHET (1893 - 1894)

Filippo Cechet nacque nel 1872 a Fogliano dove vide la luce anche il fratello Giuseppe. Della loro produzione poetica, che dovette essere assai vasta secondo quanto ricorda Carlo Luigi Bozzi, non rimane quasi nulla. Con Tenp birbante, Giuseppe Cechet vinse il concorso per il testo di una canzonetta bandito nel 1894 in occasione dell'esposizione artistica di Gorizia, che apparve su "Pagine Friulane" del 5 agosto 1894 e ripubblicata dal Bozzi nel 1971, in un ricordo dei due fratelli apparso sulla rivista “La britula”. Quando che ’ndéu catarla invece, scritto da Filippo nel 1893, è il testo di una tra le più belle e famose canzoni bisiache: canzone già analizzata da Don Narciso Miniussi ma il cui autore è a lungo rimasto anonimo fino alla scoperta, da parte di Pier Maria Miniussi, di un dimenticato saggio di Ranieri Mario Cossar, Usanze popolari d’un Comune della Provincia di Trieste, in cui è riportato il testo con l’indicazione dell’autore.
Giuseppe Cechet, dopo essersi laureato in legge entrò nella Magistratura fino a divenire Presidente del Tribunale di Gorizia. Filippo Cechet invece, costretto da una malattia alle gambe all’invalidità, si dedicò allo studio delle lingue e a quello della musica, divenendo un noto e apprezzato traduttore e autore di testi e musiche popolari. Morì ancor giovane nel 1912.
Ma ecco qui di seguito come li ricordava, nel suo colorito bisiàc, Carlo Luigi Bozzi: "A Foiàn xe nassù più de zento ani fa Bipin Zechet, nomenà Morés, che ’l veva studià par dotor de leze e ’l xe ’ndà cu’l tenp in alt, de doventar gnente meno che President del Tribunal de Guriza. Ma Bipin Morés no se contentava de métar nomo in presón i birbanti; a tenp pers al scriveva anca puisìe in bisiàc, recordandose senpre del só paese e de la só zente. (...) Bipin Morés véva un fradel ( al véva veramente un zinque o sié, ma dès ne ’nporta sto qua) dispossént, che ’l véva pers le ganbe e ’l stava senpre ta ’l let. Sto omo de bassól al véva inparà a scrivar e a lèzar; po, un poc par volta, al se véva mitù a studiar la lèngua taliana e a lèzar e comentar la Divina Comedia e i Promessi Sposi tant de savér a mente le parte più bele. Ma no basta ancóra: al véva studià al todesc’ e al franzese e ’l fava traduzion de libri, scriti in ste dó lèngue, par stampar su foli de Trieste e de Guriza.
E ’ncóra no basta: al véva anca ’nparà le note de la musica e a sonar al mandulìn e la ghitara, e cussì, cu’la pazienza, al véva mitù insieme un poc par volta una orchestra de mandulìni che ’ndava a sonar pa’le sagre e a Gradisca.
Insùma, miràcui, robe mai viste cossa che pol far un omo anca distirà ta let. (...) Sto omo al se ciamava Filipo e l’era cugnussù in duti i paesi bisiachi e furlani".
Sempre il Bozzi, su "La Cantada" del 1969, assieme al testo di Quando che 'ndeu catarla pubblicò due sonetti, non specificando l'autore dei testi, descrivendo i tre componimenti come "tre quadretti, tre scenette, svoltesi in altri tempi in un paese della Bisiacaria (che naturalmente no xe Foian) dipinti o dipinte (como che volè) da un versaiolo non privo di malizia e di morbin". Il Bozzi attribuisce i tre testi ad un unico autore che potrebbe essere quindi Filippo Cechet (di cui ormai è stata dimostrata la paternità della canzone) anche se non si può del tutto escludere - in mancanza d'altri documenti - che i sonetti siano stati scritti dal fratello Giuseppe oppure potrebbero essere il frutto di una collaborazione tra i due. Per la maggior comprensione dei testi bisogna ricordare che vi compaiono due figure d'altri tempi: un cieco suonatore d'organetto chiamato Peteata, ed un frate dell'ospedale di Gorizia che faceva il cavadenti per carità.


Tenp birbante

Pina la se ciamava
la fiama del me cor;
do oci che brusava,
un muso dut amor.

Ma ’l tenp, sì quel birbante
ghe piase variazion,
e senza pensar massa
la lasso in abandon.

Me cato una seconda
cossa volé de mei!
Graziosa, viva, bionda,
cu’i denti cussì bei.

Cato una terza fora
de prima qualità
la carnagion xe mora
e bela in virità.

Senpre cussì ganbiando
como pavéa al fior,
vado a piazér gustando
cossa che xe l’amor.

Pina, Marieta, Rosa
le se ga sposà;
la storia xe curiosa:
vedràn mi son restà.

Quando volé sposarve
no ste far como mi;
no ste desmentegarve
quel che xe dit a lì.

Al tenp, sì quel birbante
ghe piase variazion
e prima de ’vertirve
ve lassa in abandon.

Tempo birbante Pina si chiamava / la fiamma del mio cuore; / due occhi che ardevano / un viso tutto amore. // Ma il tempo, sì quel birbante / ama le variazioni, / e senza pensarci troppo / la lascio in abbandono. // Mi trovo una seconda, / cosa volete di più!, / graziosa, viva, bionda, / con denti così belli. //. Ne trovo una terza / di prima qualità / la carnagione scura / e bella in verità. // Sempre così cambiando / come farfalla il fiore, / vado a mio piacere gustando / che cos’è l’amore. // Pina, Marietta, Rosa / si sono sposate; / la storia è curiosa: / scapolo son rimasto. // Quando vorrete sposarvi / non fate come me; / non dimenticatevi / di quel che è stato detto qui. // Il tempo, sì quel birbante / ama le variazioni / e prima di avvertirvi / vi lascia in abbandono.





Filippo Cechet



Quando che ’ndéu catarla



Quando che ’ndéu catarla
la me vigniva dogna
e no la véa vergogna
se ghe tachéu un bus.

Anzi la véa caro
mi ghe diséu lora:
- “Catina ’ndemo fora
pozarse al scalamus!” -

- “Ah! no” - la féva èla -
“no Toni, no bazìlo,
e po, te vede che filo
e fora xe tant scur”.

Ciò, par no disgustarla
no ghe verzéu più boca,
ma ghe ciapéu la roca
e ghe la sgnachéu in ta’l mur.

E po la me vigniva,
pa’l col la me ciapeva,
e po la me diseva:
- “Te xe rabià cun mi?” -

Mi ghe strenzéu la vita
e la busséu sui oci
e ghe diséu “Baloci
te amo sola ti!”.


Quando andavo a trovarla. Quando andavo a trovarla / lei mi veniva vicino / e non provava vergogna / se le davo un bacio. // Anzi, la rendeva felice / e allora le dicevo: / - “Caterina andiamo fuori / ad appoggiarci sullo scalandrino!” - // - Ah, no” - lei rispondeva - / “no Antonio, non mi interessa, / e poi, non vedi che sto filando / e fuori è così buio”. // Così, per non disamorarla / non aprivo più bocca / ma prendevo la conocchia / e la scagliavo contro il muro. // E poi lei mi ritornava accanto, / mi abbracciava al collo, / e dopo mi diceva: / - “Sei arrabbiato con me?” - // Io la stringevo alla vita / e sugli occhi la baciavo/ e le dicevo “ Mia cara, / amo soltanto te!”.



Duta la note sto dent del juidizi...


- Duta la note sto dent del juidizi!
Che dolori, madona de l'altar,
como se vessi in boca un par de stizi
de quei che i arde ben sul fogolar.

- Te xe como i putei, pien de caprizi!
mi te pridìco e ti no te sta scoltar.
Te go dit mi e duti i to amizi:
- Va là del frate e fatelo gavar!

- Gavar un dent? ciò, femina danada
ciò senza cor... mi me domando a mi:
ma no te sa che duta la notada

como 'l Signor in crose go patì!
Como'l Signor in crose! Che bulada
dir: - Gava 'l dent! Prova gavarlo ti!


Tutta la notte questo dente del giudizio... Tutta la notte questo dente del giudizio! / Che dolori, Madonna dell'altare!, / come se avessi in bocca dei legni incandescenti, / di quelli che bruciano bene sul focolare. // Sei come i bambini, pieno di capricci! / Io predico e tu non mi stai ad ascoltare. / Te l'ho ripetuto io e tutti i tuoi amici: / -Vai dal frate e fattelo togliere! // - Togliermi un dente? Ah, femmina dannata / ah senza cuore... ma mi domando: / lo sai che per tutta la nottata // ho sofferto come il Signore sulla croce! / Come il Signore sulla croce! Facile / dire: - Fatti togliere il dente! Fattelo togliere a te!




Che roba che go vist, in ta la vila...


Che roba che go vist, in ta la vila:
xe un che parla in t'un scartoz de lata
al canta e 'l sona tant che Peteata
cu'l organet; e un antro che 'l sivila

como 'na corsa. I xe i putei in fila
par star sintir sta nova besteata.
Cossa credeu che'l sie, vu mo, tata,
sta piria che pridìca e che sivila?

Più che te pol tiente a la larga, fia,
de quel che 'nventa dès sti farisei:
ta la piria xe 'l diàu, ànima mia!

Cussì diseu che 'l sie? Pori putei
danai senza saver, giesumaria!
Al diàu li rustirà como dordei.

Che cosa ho visto in paese... Che cosa ho visto, in paese: / c'è uno che parla in un cartoccio di latta / e canta e suona come Peteata / con l'organetto, ed un altro che fischia // come un treno. Ci sono i bambini in fila / per ascoltare questa mostruosità. / Cosa credete che sia, voi, padre, / quest'imbuto che predica e sa fischiare? / Più che puoi tieniti alla larga, figlia mia, / da quello che inventano ora questi farisei: / nell'imbuto c'è il diavolo, anima mia! // Così dite? Poveri bambini / dannati senza saperlo, Gesù Maria! / Il diavolo li arrostirà come dei tordi.


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"L'ORA DE AMOR" DI VALENTINO BATTILANA (1898)


Valentino Battilana nacque a Monfalcone il 22 luglio 1871, come ricorda Aldo Buccarella in un suo scritto apparso nell'opuscolo edito in occasione del II "Festival de la Canzon Bisiaca" del 199l. Il padre gestiva la prima impresa di pompe funebri a Monfalcone ed egli iniziò ancor giovane a lavorare nella ditta paterna divenendo presto un provetto falegname ("marangon de fin"). Per la sua bravura e sensibilità artistica, il comune gli affidò di allestire le scene per il teatro comunale curandone anche gli addobbi in occasione di feste, balli e casi particolari. Per la sua predilezione ad usare nei festoni allegorici i colori della bandiera italiana, non era visto di buon occhio dagli austriaci e d'altra parte lui non nascose mai le sue forti simpatie per l'Italia, tanto da frequentare un gruppo di monfalconesi che intrattenevano rapporti con Cesare Battisti. Dal 1907 al 1915 fu membro comunque del consiglio comunale. Allo scoppio della guerra fu arruolato e mandato a combattere in Russia, da dove per le lotte ed i disagi ritornò invalido. Morì a Monfalcone nel 1938. Lasciò una discreta produzione di prose e canzoni ancora in parte da scoprire. Di recente sono stati pubblicati due suoi testi e cioè la "Canzonetta monfalconese" L'ora d'amor nel sopracitato opuscolo e, a cura di Pier Maria Miniussi, Evviva il fin del secolo, scritta il 2 febbraio 1900 in bisiàc, apparsa su "La Cantada" del 1991. Ambedue furono musicate dal maestro Nicolò Pletz. Della prima si conosceva una versione, datata 1898, composta da sei quartine che ad un primo esame risultano piuttosto sconclusionate e scritte in un dialetto approssimativo. La seconda versione invece, purtroppo mutila di un verso, è stata stampata nel 1899 dopo un esteso lavoro di revisione che l'ha resa più musicale sia nel ritmo che nella metrica. Le quartine sono diventate nove, scritte in settenari a rima alternata e franta, in cui l'autore esprime tutto il suo amore per la sua bella e per quei luoghi della vecchia Monfalcone che andavano scomparendo e che erano testimoni muti della storia amorosa. Si tratta comunque di testi dallo scarso valore letterario con cui si cercava, attraverso la celebrazione degli anni della dominazione veneziana e del ruolo che aveva rivestito nel passato la città - in linea con le tesi di storici del tempo come il Pocar o Caprin - di veicolare, come sempre sottolineava Pier Maria Miniussi, un messaggio irridentistico. Bisogna ricordare che, tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento, diversi altri autori si dedicarono alla creazione di canzoni, riscuotendo un tale favore da rimanere impresse, per molti anni ancora, nella memoria della gente. Canzoni che potevano trattare temi leggeri, amorosi, o fatti particolarmente efferati come La storia de la povera Marcelina, ma che non disdegnavano temi d'attualità come l'inaugurazione del canale navigabile di Monfalcone, come La cantada del cor del 1904 o, con No se iera che un vilagio del 1912, l'elevazione di Ronchi al rango di borgata.

L'ora d'amor


Quando che parlo, Lina,
con ti, me bate 'l cor;
la sera e la matina
no penso che a sto amor.


De là, drio de la fossa,
andemo a far l'amor,
. . . . . . . . . . . . . . . .
mi te parlo de cor.


La luna xe za fora,
e fresco xe 'l borin,
fate più in qua, xe l'ora...
fate a mi più vizin.


Bionda, se quel mureto
là, poderia parlar...
del nostro amor...scometo
romanzo se pol far.


Pensa che un giorno iera
fortezza sta città...
solo che quatro muri
in memoria xe restà.


Dai tempi più remoti
qua iera 'l gran Leon...
E la Roca portava
per stema el falcon.


Tuto ga fin nel mondo,
e tuto passa e vien...
camina fina in fondo,
sempre te voio ben.


Senti, l'orloio bate...
le nove xe vizin,
ma prima de lassarte
dame ancora un basin.


Questo sarà 'l mio pegno;
senpre te voio amar,
dona te farò almeno
e mai te voi lassar.



L'ora d'amore. Quando parlo, Lina, / con te, mi batte il cuore; / la sera e la mattina / non penso che a questo amore. // Di là, oltre il fossato, / andiamo a far l'amore, / (...) / ti parlo con il cuore. // La luna si è già levata, / e fresco è il borino, / fatti più in qua, è l'ora ... / stammi più vicino. // Bionda, se quel muretto / lì, potesse parlare... / del nostro amore... / scommetto / che un romanzo se ne potrebbe fare. // Pensa che un tempo è stata / una fortezza questa città... / soltanto quattro mura / in sua memoria son rimaste. / Dai tempi più remoti / qui c'era il grande leone... / e la Rocca aveva / come stemma il falcone. // Tutto ha fine nel mondo, / e tutto passa e viene... / cammina fino in fondo, / sempre ti voglio bene. // Senti, l'orologio batte... / son quasi le nove, / ma prima di lasciarmi / dammi ancora un bacin. // Questo sarà il mio pegno; / sempre ti voglio amare, / donna ti farò almeno / e mai ti voglio lasciare.





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"LA STRIGA BRUSADA VIVA" (1901)

Ciolta su a Segrà dell'Isonz




Una diambara de veciata la iera cognosuda de tutt el paese par una striga patentada parché se la rivava ad ora a toccar qualchidun i restava subito strigati, che la ghe ni ga fatti anca morir, e tutti quanti i scampava de ela come il Diaul dell'aqua santa; cun dutt questo sempre la dinegava.
So fiole le ga benedì l'ora che le xe sposade, perchè no le podeva più sopportarla de tant tremenda che la iera, e il fio se ga cavà fora de casa anca lui, e quando che la è restà sola ghe ga dimandà a 'sto ultimo una putella che la ghe fassi compagnia, lui che ga 'cordà giusto per il rispetto de mare.
Una sera, che la iera dormir con so nezza, se ga alzà dal letto verso mezzanotte e la stava per andar via, quando che la putella dismissiada la ga comincià a pianzar che no la sta sola, che la ga paura.
Allora so nonna ghe dise:
- Ben, vien anche ti con mi, allora; ma no sta verzar bocca a nessun.
- No ghe digo a nessun, no nonna; e dove andemo?
- Vien cun mi ti e tasi cidina ve, che se te parla qualcossa te taio la lingua.
La à menà in cusina, e lì se ga messo a portar via la cinisa del fogoler e toccando no so in cossa ghe ga onzù i polsi e le tempie e dopo ciapada palla man le xe sparide tutte due pal cammin.
La putella mo, che se capisce, come tutti i putei, che no 'i xe boni de tegnir scondù niente, ghe ga ditto pochi giorni dopo a so pare che una notte la xe andada fora con so nonna, come che la ghe ga fatto, che le xè scampade pal camin, e rivade in tun prà grando, grando, dove che iera tante siore che le saltava, le ballava, le se contava storie, le zugava, ecc. ecc. e anca la nona cun lore, e po' no la sa in che maniera in tun moment le se ga trovà a casa.
Il puar omo al se ga mess pensar a 'ste parole, e 'l xe restà convint che so mare iera striga.
Qualche giorno dopo la ghe dise ancora:
- Tata mi son bona de far vegnir la tempesta, ve!
- Cos te dise che te se bona de far vegnir la tempesta?
- Si, si, tata, porteme fora una mastella de acqua e te vedarà.
- Ma ben se te la fa vegnir dove che no la fa danno?
- Dove che te vol, anca' sol tal curtiu.
Al ghe porta fora una mastella de acqua e in tun moment de bel seren che iera, vien su un nul fiss, fiss; la ciol do bachetuzze de sanguanella e la comincia a batter l'acqua con ste bacchette in crose e zò la tenpesta, e sta striguzza domanda a so pare:
- Tata, te la vol grossa?
Dopo la vigniva come patate a pien curtiu e fora nianca un spell.
So pare, tutto spaurì, ghe ga cigà:
basta, basta! - dal ditt al fatt, xe tornà seren.
Subito, lui xe andà contarghe al prete il fatt e questo ghe ga rispost:
- Eh, benedetto, tutta la causa xe vostra mare!
- E cossa varia de far?
- ma se volé ver pase in casa, e no ver altri malanni, bisogna che la brusé, e alla putella taiarghe la ponta del dé pizzul!
- Eh! Signor me perdone! Brusar me mare?
- Ma mi ve digo pel vostro ben...
Sto puar omo al se ga persuadù che nol pol far in altra maniera, e andà d'accordo cui cugnadi sovi de buttarla tal forno ben caldo e brusarla.
In quel giorno che i veva de far la cosa, lui per no vedere che ghe fava anca diol, al xe andà via de casa.
E cussì i ga fatto, dopo preparà pulito il forno; i gà mandà ciamar la vecia che la xe capitada subito, e appena entrada, vedendo so nora che la misciava sulla vintula che i veva preparà prima, e il forno caldo, la ghe domanda:
- Cossa véu de far el pan? - e disendo ste parole, la se ga vicinà al forno.
Allora so zeneri i xe saltadi fora de dove che i era scondudi, apposta i la ciapa e i la butta dentro; dopo i ga serà ben ben la busa, e pontada cun legno, e cussì urlando e cigando del dolor, la ga finì de far mal in sto mondo.
Dopo qualche temp, guarida il dè, so pare al ghe dise:
- Dài, famme vegnir un poca de tempesta!
La ga fatt ella come l'altra volta, ma tempesta no ghe ni xe vignuda.





Nota

La striga brusada viva, secondo quanto riporta Domini nell'introduzione al Vocabolario fraseologico del dialetto bisiàc, venne raccolta da C. Domini a Sagrado e pubblicata da G. Picotti su <> (vol. XVI, Udine 1901, pp. 182-183) ed è il più antico testo in prosa nel nostro dialetto di cui si abbia conoscenza. Abbiamo deciso di riportarla qui così come è stata pubblicata a suo tempo, senza alcuna correzione, mantenendo i numerosi ed evidenti errori di trascrizione che non sfuggiranno di certo a quanti si interessano al dialetto bisiàc. È interessante far notare che il bisiàc parlato a Sagrado alla fine dell’Ottocento, a differenza di quanto alcuni hanno affermato, non era per nulla dissimile rispetto a quello parlato nel resto della Bisiacarìa.


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"LA VITA MILITAR" DI ANTONIO COLOBIG (1904)

In un quaderno manoscritto che raccoglie anche alcune canzoni in italiano, del 1904, segnalatomi dall'amico Cesare Zorzin, tra altre cose meno importanti, ho trovato alcuni anni orsono una specie di sgangherata poesia intitolata La vita militar. L'autore, Antonio Colobig, detto "Toni de Nardo" o anche "Pacifico", era nato a Vermegliano nel 1879 ma si trasferì a Pieris quando aveva quattro anni, sposandosi successivamente con Ernesta Fabris (la donna ritratta sulla copertina del libro dedicato al costume femminile bisiàc), e dove morì il trentun maggio del 1927.
La poesia racconta, in forma burlesca anche se molto sincera e rivelatrice, del durissimo servizio di leva militare sotto L’Impero Austroungarico, che per la marina durava quattro anni. Si tratta un documento per molti versi importante perché, al di là del pur limitato valore letterario della composizione, ci presenta la vita militare vista dalla parte degli umili, di chi, in fondo, questa vita la subiva come una sorta di punizione incomprensibile che strappava l’individuo dalla vita di ogni giorno, dagli affetti, dal proprio lavoro. Non c’è, quindi, alcuna esaltazione della guerra o ombra di retorica così tipiche di quel periodo: ma, piuttosto, la contrapposizione fra un’umanità semplice, viva e reale, ed un mondo rigido, assurdo e implacabile, che parla una lingua lontana e straniera. E dunque, nascosto dietro un velo di apparente buonumore - attraverso cui chi è vittima, e vittima è destinato a rimanere, dimostra nella sua aderenza al vero la propria superiore umanità - una denuncia implacabile.
All’interno della poesia - un miscuglio tra bisiàc e un italiano incerto - sono inserite alcune parole e versi in austriaco, che rimandano ad ordini impartiti o a gradi della gerarchia militare. Verso la fine del testo viene nominato il “Mark Hotel”, che si riferisce alla prigione militare del luogo, a cui erano destinati i militari non ligi ai comandi, che venivano perciò chiamati “marchetti”. La poesia, assieme ad una lettera dell'autore, è apparsa nell'articolo Di guesto martirio fulminante, pubblicato dal sottoscritto in "Bisiacaria" nel numero unico 2000-2001.





La vita militar

Un giorno che era festa
E non sapendo cossa far
Mi venne nella testa
Di scrivere la vita militar

Son molti versi in rima
Ma ho scielto i più belli
Che per dirvela in orecchie
Cosa è la marina

Co semo in caserma
Femo come l’infanteria
Manovra scola e scherma
Guardia e pulizia

Appena spunta il giorno
Con un tiro di cannone
E con un segnal di corno
I ne sveglia del paione

Nemmeno ben vestiti
I chiama per caffé
E se presto no se corri
I rispondi più no xe

El caffé xe ecelente
A quel’óra xe un bonbón
Ma più giorni no ’l val gnente
Nanche un patacón

E dopo un poco i ciama
“Andret mit ghevchr”
Ancora mezzi indormenzadi
Far tutto questo xe dovér

Se va abbasso là in piazzal
Un per de orette a manovrar
E poi se va in caserma
Per i fucili ben nettar

Neanche ben nettai
Per la guardia semo destinai
E noi poveri marineri
Così passemo la matina

La xe una disciplina
Assai più mal de casa
Ma intanto si avvicina
L’ora de la manasa

Con quel buon appetito
Da veri commedianti
Per questa bella partita
Pronti come elefanti

La manasa i porta su
Non pesa cosa cosa granda
Ma nanche no xe più
Quella pisciona de bevanda

Brodo gnochi e carne lessa
Sempre pasti variabili
Ma noi solo ne interessa
Che i sia grandi e saziabili

Certi domanda risi
Se ghe xe un poco ancora
El cogo se rabia e ’l disi
No xe più va in malora

El “tag sarse” se rabbia
El disi fé presto magnar
Che abbasso già la guardia
Se senti a ciamar

Se comincia indossar
Giberna e munizión
Poi se va a passar
In piazza la revisión

Insomma poveri marineri
D’istà e ancor d’inverno
Pensando ai fogoleri
Che a casa xe nell’interno

Per esempio a Vallebimga
Che de guardia se va là
La xe una troppo lónga
per un povero soldà

In quel bosco solitario
Che non entra nanche vento
Xe come un santuario
Chiuso come un convento

Il magazìn numero sette
Che xe sotto guardia dura
Che per quelle due orette
Se ciapa più d’una paura

Ogni quarto d’óra
per non restar indormenzà
Se devi a squarciagola
Zigar forte “Alt ver dà”

Co xe vento in quel boschetto
Qualche fòia la camina
E quel povero che xe al posto
Ghe par zà che sìa una mina

Co se ga fatto due ore de posto
Invece de andar dormir
Tocca far due ore de aviso posto
Ancora per soffrir

Dopo terminà ste quattro ore
Se va per riposar
Ma la panza no permetti
La domanda de magnar

Par contentar la panza
Spesso anche ne toca
Con grandissima creanza
Inpinirla de pagnocca

La sede poi tormenta
E sbrondóla le budella
Con magnifica eloquenza
Zò de acqua una camela

E così se la passemo
In guardia qua e là
Ma per l’altro noi gavemo
Miseria in quantità

Se qualche povaretto
Sul posto fa la spavada
Due o tre mesi de marchetto
I paga ben salada

Per andar fra quelle mura
De marco ostel grande
Fa una certa paura
De farsela in mutande


La vita militare. Durante un giorno di festa / Non sapendo cosa fare / Mi venne in mente / Di descrivere la vita militare // Sono molti versi in rima / Ma ho scelto i più belli / Per farvi intender chiaramente / Che cos’è la Marina // Quando siamo in caserma / Facciamo come in fanteria / Manovre scuola e scherma / Guardia e pulizia // Appena spunta il giorno / Con un tiro di cannone / E con un segnale di corno / Ci buttano giù dal letto // Nemmeno ben vestiti / Ci chiamano per il caffé / E se presto non si corre / Rispondono che più non c’è // Il caffé è eccellente / A quell’ora è una chicca / Ma preso per più giorni vale / meno di una patacca // E dopo un poco ci chiamano / “Andret mit ghevchr” / Ancora mezzi addormentati / Far tutto questo è un dover // Si va giù in piazzale / Per un paio d’ore a far manovre / E poi si torna in caserma / Per i fucili a ben lustrare // Nemmeno finito del tutto di pulirli / Siamo destinati alla guardia / E noi poveri marinai / Così trascorriamo la mattina // E’ una disciplina / Assai più dura che a casa / Ma intanto si avvicina / L’ora del rancio // Con quel buon appetito / Da veri commedianti / Per questa bella partita / Pronti come elefanti // Portano su il rancio / Che non pesa chissaché / Ma almeno non c’è più / Quella pisciona di bevanda // Brodo gnocchi e carne lessa / Sempre pasti variabili / Ma a noi soltanto ci interessa / Che siano abbondanti e capaci di saziare // Alcuni domandano del riso / se ve ne sia ancora un poco / Il cuoco si infuria e dice / è finito, andate a quel paese! // La guardia si arrabbia / E dice finite presto di mangiare / Che giù ormai si sente chiamare / E si comincia ad indossare / Giberna e munizioni / Poi si va / In piazza per l’ispezione // Insomma poveri marinai / D’estate e ancora d’inverno / Pensando ai focolari / nell’interno delle case // Per esempio a Vallebimga / Far la guardia là / dura troppo a lungo / Per un povero soldato // In quel bosco solitario / Dove non entra nemmeno il vento / Pare di essere in un santuario / Chiuso come un convento // Il magazzino numero sette / che è sempre sotto guardia dura / Che per quelle due orette / Si prende più d’un spavento // Ogni quarto d’ora / Per non cadere addormentato / Si deve a squarciagola / Gridare forte “Alt ver dà” // Quando c’è vento in quel boschetto / Si muove qualche foglia / E quel poveretto che sta al posto di guardia / Gli sembra già che ci sia una mina // Quando si sono fatte due ore di guardia / Invece di andare a dormire / Tocca farne altre due / Ancora per soffrire // Al termine di queste quattro ore / Si va a riposare / Ma lo stomaco non lo permette / Domanda da mangiare // Per accontentarlo / spesso anche ci tocca / Con grandissima creanza / Riempirlo con una pagnotta // La sete poi tormenta / E gorgogliano le budella / Con magnifica eloquenza / Si butta giù una gamella d’acqua // E così ce la passiamo / Facendo la guardia di qua e di là / Ma per il resto non abbiamo altro / Che miseria in quantità // Se poi qualche poveretto / Sul posto di guardia s’addormenta / Passa due o tre mesi da “marchetto” / Pagandola salata // Tra quelle mura andando del “Mark Hotel” / si ha paura / di farsela nelle mutande.

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