mercoledì 5 novembre 2008
Storia della Bisiacarìa
Tra l’Isonzo, il Timavo, il Carso e il mare:
brevi cenni sula Bisiacarìa e la sua storia
E la récia scolta
la ròia che conta
e 'l vent che canta
pa i busi. Passa
intorno de mi
i sécui sul pel
de l'aqua fresca.
Silvio Domini
Lambita dal mare Adriatico con le sue lagune che da millenni offrono riposo ai grandi stormi di uccelli migratori provenienti dal Nord verso l'Africa; chiusa tra le verdi acque dell'Isonzo ed i segreti percorsi del Timavo mentre sullo sfondo si ergono i deserti profili del Carso, con i suoi laghi, le doline, le pietraie in autunno miracolosamente arrossate dalle foglie dei sommacchi: la pianura su cui sorgono i comuni di Monfalcone, Ronchi dei Legionari, San Canzian d’Isonzo, Staranzano, Fogliano-Redipuglia, Turriaco, San Pier d’Isonzo ed il paese di Sagrado, in provincia di Gorizia, ha preso il nome, per molti secoli, di "Territorio", un nome che - seppur nato per altre ragioni - alla fine ben si presta a definire un insieme così vario di situazioni paesaggistiche uniche racchiuse in uno spazio così limitato. Una zona sconosciuta ai più in Italia, come faceva notare Claudio Magris in un suo bel saggio comparso alcuni anni orsono sul "Corriere della Sera", ma poco nota, crediamo, anche a molti nello stesso Friuli Venezia-Giulia.
Ragioni storiche associate alla sparizione di gran parte dei documenti conservati negli archivi, spesso distrutti in incendi durante le molte, devastanti guerre che si sono combattute in quest'area, hanno fatto sì che la cosiddetta Bisiacarìa, il suo linguaggio rimanessero per molto tempo una realtà poco, se non per nulla, studiata.
Ripercorrerne la storia, le innumerevoli vicissitudini, seppur brevemente, può essere d'aiuto anche nel comprendere come si sia formato ed evoluto in queste zone un linguaggio particolare come il bisiàc e a fissarne meglio i lineamenti ancora così sfuggenti e a volte quasi indefinibili: gli stessi che caratterizzano anche, per certi versi, la poesia che qui si è andata scrivendo.
Come ricordava Italo Santeusanio nel suo saggio Traccia storica del territorio, apparso sulla rivista "Il Territorio" (saggio a cui questo scritto attinge ampiamente), secondo gli storici, i primi ad insediarsi nell’attuale Bisiacaria, furono gli Euganei, costruendo diversi castellieri sul Carso ancor oggi in parte visibili. Successivamente presero il loro posto i Veneti che si spinsero, tra il X e il VII secolo a. C., nella parte orientale del nostro paese. Dai pochi frammenti rimasti del passaggio di questi popoli (perlopiù resti di pasto appartenenti alla pecora, alla capra, al maiale e al bue, come al cervo, al capriolo e all’orso bruno) si può desumere che fossero dediti alla pastorizia, all’allevamento e alla caccia. Ai Veneti seguirono, circa cinquecento anni più tardi, i Galli; e a testimonianza della loro presenza bisognerà ricordare che lo storico Tito Livio, parlando della fondazione di Aquileia nel 181 a. C., scrisse che il senato romano decise di stabilire qui una sua colonia, tra l’altro, proprio per contrastare i movimenti delle popolazioni celtiche.
Tracce dei frequenti contatti con Aquileia, tra il II secolo a.C. e il V secolo d. C. durante il periodo della dominazione romana, rimangono i numerosi reperti di carattere archeologico trovati un po’ ovunque nel monfalconese, tra cui i resti delle Terme Romane ricordate da Plinio nella sua Naturalis Historia, oltre a quelli riguardanti le fabbriche di laterizi e le tintorie del litorale. Bisogna ricordare, inoltre, la via consolare che da Aquileia conduceva verso Tergeste (Trieste) e da lì a Tarsatica (Fiume) fino a Iulia Emona (Lubiana) e che attraversava il delta lungo la direttrice San Canzian d’Isonzo (ad aquas gradatas) - Dobbia - Ronchi.
Nel periodo paleocristiano, tra il secolo IV e VI, Aquileia divenne un importantissimo centro di irradiazione del messaggio cristiano in tutta la regione e, quindi, anche nel Territorio. A conferma di questo, a San Canzian d’Isonzo è stata scoperta piuttosto di recente un’antica basilica paleocristiana (secoli IV-VI) nella quale fu riconosciuta la tomba dei martiri Canzio, Canziano e Canzianilla, caduti durante la persecuzione voluta dall’Imperatore Diocleziano. Dagli studi suscitati da questo rinvenimento si può affermare, oggi, che questo paese fu uno dei centri cimiteriali più importanti e venerati di Aquileia cristiana.
Nel IV secolo d.C., i Goti invasero la penisola seguiti, di lì a poco, dagli Unni guidati da Attila che ridussero la grande e splendida città di Aquileia ad un paesaggio di rovine e, con essa, nella distruzione vennero coinvolti tutte i centri abitati limitrofi, i ponti abbattuti, le strade interrotte.
Dopo la fine dell’Impero Romano, nel 568, guidati da Alboino, i Longobardi occuparono l’intera regione lasciando, ancor oggi, influenze della loro parlata nel friulano e nell'idioma di tipo veneto che si parla in queste zone, il cosidetto bisiàc, in parole come per esempio Crodia da Hrudia, (cotenna) o balcon da balko (finestra), mentre la presenza dei Franchi è testimoniata da altri termini come biau da blao (azzurro chiaro) o falisca da falawiska ( scintilla).
Andando più avanti nel tempo, diversi documenti attestano che, a partire dall’819 d. C. fino al 1420, il Territorio si trovava sotto la giurisdizione dei patriarchi di Aquileia. E proprio in questi testi, incastonati tra il latino medievale, iniziarono a comparire i primi rari frammenti di termini poi travasati nel friulano prima e di riflesso, poi, nella parlata bisiaca. Nell 1377, ad esempio, in un documento si parla di un terreno denominato Barè (derivante probabilmente dal latino "baretum", luogo ricoperto da sterpaglia) che si trova nei pressi di Staranzano ed è conosciuto ancora oggi con il nome di Barè de Dotori. Significativo rimane inoltre il fatto che in friulano ed in bisiàc si sia conservato il significato originario di questa parola nei secoli, e non soltanto il toponimo come quasi sempre accade, dal momento che ancora il termine barè indica genericamente un luogo incolto, lasciato in abbandono, disseminato di cespugli e rovi. Nel bisiàc molte sono comunque le parole d'origine latina rimaste intatte nel tempo da caligo (nebbia) o panzére da panthere (grandi reti per l'uccellagione) come anche d'origine greca, da ascriversi all'influenza dell'impero bizantino, come criùra (gelo) o brule (canne di palude).
In questo periodo, secondo gli studi di Maurizio Puntin, dai territori dell'ex Yugoslavia si insediarono nel monfalconese gruppi numerosi di persone di origine slava lasciando, soprattutto nella toponomastica, un gran numero di testimonianze della loro ormai più che millenaria presenza in queste zone.
Soltanto dopo il Mille sorsero però le tre pievi della Marcelliana, di San Canziano e di San Piero assieme ai molti villaggi che costituirono il districtis Monfalconesis. In questo periodo difatti Monfalcone venne protetta da una cinta muraria, e di conseguenza venne chiamata, come ogni centro abitato circondato da mura, "Terra", mentre la zona circostante prese il nome di "Territorio", termine che fu mantenuto anche all’epoca della dominazione veneziana e che sopravvive ancor oggi. Questa città, a quel tempo trovandosi sull’unica naturale via di collegamento con l’Oriente, la strada per Trieste e l’Istria, divenne ben presto un rilevante centro commerciale, diventando posto di Muda (ossia di dogana). Trovandosi a metà strada tra i rivali Conti di Gorizia e Duino, il castello di Monfalcone assunse anche una notevole importanza dal punto di vista strategico.
Nel Duecento invece, assistiamo anche ad un interessante trasmigrazione, in queste zone, di termini d'ascendenza provenzale: tra gli altri curtìu da cortiu-s e nomi in -or come lusór o spiandór. ma sopratutto garzon, da garcon, parola rimasta nell'uso con il suo significato originario di "ragazzo" soltanto nei paesi della Bisiacarìa, come ricordava la studiosa Piera Rizzolati, e la cui ultima testimonianza in altri dialetti o lingue minori risale alla metà dell'Ottocento. Mentre ancora, di quell'epoca, rimangono nel parlato termini davvero arcaici come comódo (come) o bròilo (brolo, orto recintato), cuntìnevo (continuo), solo per citarne alcuni, ritrovabili nella stessa identica forma in molti testi della letteratura medievale come accade con ancòi ( forse la forma più antica tra quelle venete per dire "oggi") presente anche nella DivinaCommedia.
Inoltre, solo per fare un esempio, già nei Proverbia quae dicuntur super natura feminarum, scritto a Venezia tra il 1152 ed il 1160 ca., il più antico testo in volgare italiano, come annotò Gianfranco Contini, troviamo molti termini ancor oggi rimasti intatti nel bisiàc: dai più comuni rasor (rasoio), forfese ( forbici ), cevole ( cipolle ), omini ( uomini ), como ( come) fino ad altri più rari come crïatura ( creatura ). Il confronto con molti testi medioevali veneti svela sopratutto come, in queste aree marginali, siano sopravvissute nella loro forma originaria parole in quelle zone scomparse a volte da centinaia d'anni come "balistra" (arco), "zerendìgul" (fionda), lo stesso verbo inpiàr (accendere) ancora usato nel veneziano settecentesco del Goldoni come anche nel friulano.
La sostituzione del prelato aquileiese con il governo della Repubblica di Venezia (comunque presente già da tempo nella zona) coincise con un’immediata cessazione delle numerose lotte interne e con una certa ripresa dell’economia del Territorio.
A questo periodo risale anche la prima vera e propria documentazione diretta di alcuni termini ancora presenti nel bisiàc, registrata tra il 1447 e il 1448, e contenuta negli Acta Criminalia conservati presso l’Archivio Storico del Comune di Monfalcone. Com’era uso in quell’epoca, il cancelliere redigeva gli atti istruttori in latino o tosco-veneto, riportando però le ingiurie e le frasi infamanti esattamente come venivano pronunciate. Si trovano dunque espressioni quali:
che tu sia squartado...
cagasangue te vegna, bruta striga...
herbera che te va a tajar le legne de li impicadi...
io l’ò vendudo che te vegna il cagasangue...
che vostu dire e me vien voia de ghetarte in acqua e de storzarte il collo...
te à la coda como uno bilfo...
Oltre a numerosi documenti di carattere notarile, o gli interessantissimi inventari con i nomi di tutti gli oggetti d’uso comune dettati dagli stessi contadini con il corrispondente nome bisiàc, che attestano la continuità nell’uso di una parlata veneta nei secoli seguenti, dobbiamo arrivare alla fine del Settecento per trovare tracce di veri e propri testi letterari.
Ma ancora, nei secoli seguenti, queste zone furono provate da terribili vicissitudini come il passaggio, con le inevitabili e note scie di violenze lasciate alle spalle, delle armate turche. Oltre ai mirabili Diari del Sanudo e a varie testimonianze di minor valore, esiste tra l’altro una preziosa testimonianza tramandata dalla tradizione orale, che bene delinea il clima di incertezza e di paura in cui si trovavano a vivere i bisiachi del tempo. Si tratta di un’interessantissima preghiera, pubblicata da Silvio Domini nel suo volume Staranzano, in cui, alla richiesta di protezione rivolta alla Serenissima Repubblica di San Marco, si mescolano strani scongiuri legati, forse, ad antiche credenze quasi sconfinanti con la superstizione.
Me buto leto
cu’l ànzul profeto
cu’l ànzul de Dio,
San Bortolomìo,
i dòdese apòstui,
Sant’Ana, Santa Susana
una me leva
l’altra me ciama;
s’ciarissete dì
me alzarò cun ti.
Ar del leto, verbo mio!,
go scontrà ’l Signoredìo
e no go paura
no de strighe
no de Ongari
no de Turchi
no de Scochi
né Confongari
De Samarco proteto,
cu’l libro serà
è la spada,
cu’l libro vèrt
è la pase,
Zuan, Luca e Matìo
da pie, da cau
e da crose
del nostro santo leto.
Cussì sia.
Una preghiera che appare, in fondo, quasi come uno strano rituale da recitare prima di addormentarsi e che si ritiene, con ogni probabilità, di origine secentesca. Vi si nominano, difatti, i Turchi e anche gli Uscocchi, le feroci truppe croate al comando dell’arciduca d’Austria Ferdinando che nel novembre 1615, durante le cosidette "guerre gradiscane" tra Venezia e gli Asburgo, con un attacco improvviso devastarono con violenza selvaggia l’intero Territorio. Oltre a questo inoltre, a dimostrazione dell’antichità del testo, la preghiera contiene al suo interno la forma molto arcaica di "ar", per "arente", che significa "vicino", e l’espressione, altrettanto vetusta e scomparsa nel bisiàc moderno, "verbo mio!".
Questi sono anche gli anni in cui, come risposta ai ricorrenti fenomeni di spopolamento del Territorio dovuti alle incursioni ottomane, oltre che alla miseria, una terribile epidemia di peste ed alle malattie legate ad un ambiente ancora in gran parte malsano, assistiamo a nuovi fenomeni di immigrazione legati all'arrivo di famiglie provenienti da diverse località del Veneto, come testimoniano cognomi come "Trevisan", "Visintin", "Padovan" ed altri. Questi nuovi immigrati contribuirono, al tempo stesso credo, ad arricchire di molto la parlata originaria facendone forse un unicum tra i dialetti della fascia costiera in quanto a ricchezza di termini ed espressioni verbali.
Dal 1617 al 1797, comunque, anno in cui terminò il dominio di Venezia, le popolazioni locali non conobbero ulteriori guerre anche se non furono risparmiate da una crescente miseria collegata anche, com’è logico, al declino economico della Serenissima. Parallelamente al processo di decadenza del mondo Veneziano in Friuli, proprio in quegli stessi anni, si tentò di aggiornare la produzione letteraria, ponendola in linea con quanto si faceva nel resto d’Europa, attraverso una notevole ed erudita serie di pubblicazioni. Uno dei promotori di questo risveglio culturale fu certamente Basilio Asquini, nato a Udine nel 1662. La sua famiglia aveva molti possedimenti nella zona di Staranzano e, dai suoi contatti frequenti con queste zone, nacque quella che è la prima analisi di largo respiro dedicata al monfalconese, il Ragguaglio geografico storico del Territorio di Monfalcone nel Friuli, pubblicato ad Udine nel 1741. Oltre alle numerose e utili notizie che vi sono contenute, questo testo appare interessante inoltre anche perché segna l’avvio, nell’ambito della produzione locale, del passaggio dall’antica erudizione ecclesiatica ad un approccio moderno, di tipo illuministico, alla ricerca storiografica.
Il primo monfalconese a raccogliere questa eredità, il primo studioso locale finora conosciuto ad occuparsi di questi temi, fu l’avvocato Antonio Del Ben, nato nel 1729 e morto nel 1801, autore di un testo manoscritto intitolato Notizie storiche e geografiche della Desena e Territorio di Monfalcone. Ma la figura più importante di quel periodo fu certamente l’abate Berini. Nato a Ronchi nel 1746, dopo aver studiato a Udine, si laureò a Padova in lingue. Parlava e scriveva perfettamente in greco, latino, tedesco, sloveno, francese e italiano. Amico di Caterina Percoto, del grande scienziato triestino Bartolomeo Biasoletto e del botanico tedesco Schiede, intrattenne contatti con il naturalista e biologo francese Georges Cuvier e con il tedesco Bartling di Monaco. Traduttore della Storia Naturale di Plinio, grande appassionato di archeologia, si dedicò con fervore e precisione allo studio dei reperti romani esistenti o che venivano via via ritrovati, come accadde per la cosidetta tomba degli "Eusebi", nel monfalconese. La sua opera più interessante, in un certo senso una summa delle osservazioni fatte fino ad allora sul Territorio, fu pubblicata ad Udine nel 1826, Indagine sullo stato del Timavo e delle sue adiacenze al principio dell’era cristiana.
Il 19 marzo 1797, attraversando il guado di Cassegliano, giunsero nel Territorio le truppe napoleoniche. I gravissimi danni provocati dai soldati francesi, in seguito a continue razzie, incisero ulteriormente sulle già durissime condizioni di vita degli abitanti del monfalconese.
In questo periodo entrano nel parlato anche alcune parole d'origine francese che godranno di particolare fortuna come visavì (dirimpetto) e sopratutto remitùr da demi-tour (confusione, frastuono) che deriva da una voce militare di comando.
Nonostante questo, nei dieci mesi dell’occupazione, vennero eliminati il maggior consiglio, le decanie e dazi e privilegi secolari. Le idee di libertà, uguaglianza e fraternità non passarono dunque senza lasciare traccia anche se allora, rassegnati da secoli di sopraffazioni di ogni tipo, gli abitanti del Territorio non potevano che ripetere un proverbio rimasto poi nell'uso popolare da allora:
Napoliòn, Napoliòn,
ganbia menestra
ma resta al paron.
Dopo il trattato di Campoformido del 17 ottobre 1797, che assegnava tutti i territori della Repubblica di Venezia ad est dell’Adige all’Austria, mentre i ducati di Milano e Mantova assieme a territori del Belgio andarono a Napoleone, nel giro di soli tre mesi il Territorio passò in mano alle autorità austriache. Le truppe napoleoniche nel frattempo, nell’attesa di abbandonare queste zone, si diedero a saccheggi e devastazioni di ogni genere coinvolgendo anche gli archivi delle amministrazioni veneziane, delle confraternite e delle chiese; archivi che, del resto, contribuirono a mutilare anche molte persone del luogo, tese a far scomparire - nell’imminente arrivo dell’Austria - tutti quei documenti che avrebbero potuto rivelarsi compromettenti.
L’Austria ebbe gioco facile (dopo che i principi di uguaglianza sociale, promulgati da francesi, avevano seriamente rischiato di far perdere per sempre gli antichi privilegi alle classi benestanti del Territorio) accappararsi le simpatie di quelli che, fino a poco prima fedeli sudditi della Serenissima, erano stati i suoi più acerrimi nemici.
Tutto, o quasi, ritornò com’era prima dell’arrivo dei francesi.
Le nuove truppe stanziatesi nella zona, però, non diedero problemi minori di quelle napoleoniche; e, sopratutto, l’Austria da subito iniziò una forte azione di controllo sulle attività e sulla popolazione del Territorio. Una popolazione che sapeva, seppure non lo dimostrava in modo palese, in larga parte ostile. Si richiesero, di conseguenza, ai parroci elenchi di persone sospette perseguitando sopratutto quelle persone di cultura che si dedicavano spinte dalle nuove idee libertarie, anche attraverso l’insegnamento, all’emancipazione degli strati sociali più bassi. Tra queste, vennero ben presto compresi tra gli altri Domenico Scocchi, Giuseppe Berini e Leonardo Brumati che, assieme ad altri studiosi locali, tra cui il poeta Francesco Cosani di Turriaco (1772-1855), fecero parte del corpo insegnante presso il "Ginnasio monfalconese". La vita di questa istituzione scolastica, promossa inizialmente dall’Austria nell’ambito della riforma scolastica portata avanti nelle provincie dell’Impero, fu ben presto apertamente osteggiata dal momento che in essa vi si ravvisò un pericoloso centro di diffusione di idee libertarie e italiane.
Ma già il 17 novembre del 1805, in seguito alle sbalorditive e fulminee vittorie che andava mietendo ovunque, spingendosi addirittura fino a Vienna, l’esercito francese rientrò nuovamente nel Territorio. Non differentemente dalle altre volte, la presenza dei soldati, con le richieste estenuanti di carne per il vitto, legname e foraggi, ridusse allo stremo la popolazione locale. Il Friuli e le terre che furono veneziane, il 28 novembre 1805, suddivise in distretti, passarono sotto la giurisdizione di un Governo Provvisorio Centrale a Udine. L’Austria allora di lì a poco, il 26 dicembre, firmando il trattato di Presburgo e riconoscendo il nuovo Regno d’Italia, cedette tutte le terre ex venete che furono aggregate al Regno. Ma il destino della zona del monfalconese, vista l’esistenza degli inclusi di possesso austriaco, e nonostante il decreto imperiale di Monfalcone del 30 marzo 1806, rimase incerto. Difatti, dopo appena un anno e mezzo, a Fontainebleau si arrivò ad un accordo che poneva il corso dell’Isonzo, dalla sorgente alla foce, come confine tra l’Austria e il Regno d’Italia. Da quel momento Isola Morosini fu staccata dal Territorio storico, a cui era appartenuta da sempre, e divenne parte, con Gradisca e l’intero Friuli, del Regno d’Italia.
L’Austria riprese allora il controllo della zona, anche se per poco. Avvennero nuove battaglie, provocate dal desiderio degli austriaci di recuperare le terre friulane perdute, cosa a cui non si erano mai rassegnati del tutto. Ma ben presto i francesi, nel primo momento presi alla sprovvista, reagirono con forza rioccupando per l’ennesima volta il Territorio. Napoleone costrinse di seguito l’Austria agli articoli della pace di Vienna, firmati il 14 ottobre 1809, con i quali gli Asburgo rinunciarono a Gorizia, Monfalcone, Trieste e a molte zone dell’Istria. Tutti questi territori, assieme al Circolo di Villacco, alla Corniola, all’Istria Veneta, a Fiume, alla Croazia alla Dalmazia, allo Stato di Ragusa, alle bocche di Catarro e ai Baliaggi di Lienz e di Liellen (Tirolo), vennero riuniti in un nuovo stato francese, con governo a Lubiana, le cosiddette "Provincie Illiriche" la cui breve vita ricopre l’arco di tempo che va dal 1809 e il 1813.
Durante questo periodo le zone del monfalconese conobbero, regolate dal codice napoleonico, alcune radicali trasformazioni: furono soppressi definitivamente i privilegi e diritti nobiliari; molti terreni, mal coltivati, vennero espropriati al clero; ci fu una riforma dei pesi e delle misure con l’introduzione del sistema metrico decimale. Nuove norme igieniche vennero introdotte e sopratutto, cosa che favorì nuovi traffici commerciali, si ripristinò la rete stradale. Inoltre si tentarono opere di bonifica delle zone paludose. Anche "Il Ginnasio monfalconese" riprese nuovo slancio durante il periodo dell’occupazione francese, per merito soprattutto di Domenico Scocchi di cui parleremo più avanti diffusamente.
Nel 1813, quando il potere di Napoleone cominciò ad incrinarsi, l’Austria infranse la neutralità e invase le Provincie Illiriche. Dopo diversi e sanguinosi combattimenti nel 1814, ripetutamente sconfitto, il Beuharnais firmò l’armistizio del 16 aprile 1814, a cui seguì, il 23 luglio, l’annessione delle Provincie Illiriche all’Impero Austroungarico. Il 7 aprile tutti i possessi dell’Imperatore Francesco i in Italia vennero riuniti in uno Stato che prese il nome di Lombardo-Veneto. Sempre in quell’anno, nel mese di agosto, si costituì il Regno d’Illiria retto da due governi, uno per la Carinzia e la Corniola, l’altro per il Litorale con Trieste, la Contea di Gorizia e Gradisca, una parte della Croazia e Monfalcone, Monastero, Duino, Sesana e Coma.
Da questo momento l’Austria rimase al potere per i cent’anni successivi, portando avanti numerose riforme, come quella dell’introduzione di un nuovo Catasto e adoperandosi tra l’altro, con buoni risultati, nella lotta contro l’analfabetismo allora diffusissimo in tutt’Italia. Bisogna notare che però, al tempo stesso, ogni focolaio di libero pensiero continuava ad essere spento sul nascere: si trattava comunque pur sempre di una dominazione seppur, per certi versi, illuminata.
La brusca interruzione dei secolari contatti con Venezia e le città lagunari comportò comunque gravi perdite per l’economia locale, riducendo l’importanza del porto di Monfalcone, e riducendo drasticamente i traffici commerciali. Si tentò di ovviare a questo attraverso lo sviluppo dell’agricoltura. Tra i vari tentativi ci fu anche quello della coltivazione del riso, che ebbe nefaste conseguenze sulla vita dei contadini, prima fra tutte la diffusione di una malattia terribile come la malaria, che andava a compromettere condizioni di vita già estreme, se pensiamo che ancora negli anni Venti del Novecento continuavano ad esistere abitazioni contadine costruite con canne, paglia e sterco.
I molti anni di contatto con l'Austria portarono all'introduzione nel territorio anche di diverse parole come steure da steuer (tasse) o forbàit da Verweis (ramanzina) assieme a diverse altre spesso derivanti dal gergo militare ( vedi tàulic, "abile alla leva" o rùcsac "zaino militare") o tecnico (vedi slàif, "freno" o "sine" binari ferroviari").
Agli inizi di questo secolo la costruzione dei Cantieri Navali di Monfalcone segnò il passaggio da un’economia di tipo rurale e piccolo artigiana a quella industriale, incrementando enormemente lo sviluppo demografico, e portando a Monfalcone, soltanto per fare un esempio, la popolazione in pochi anni da 4500 a 11000 persone.
Durante la prima guerra mondiale molta parte degli edifici storici della zona furono distrutti e, con essi, quasi tutti gli archivi comunali e privati, il che comporta ancor oggi serie difficoltà nel ricostruire la vita, i costumi e il linguaggio di queste zone. Con l'abbattimento già nell'Ottocento delle mura merlate che circondavano, facendone un piccolo gioiello architettonico, il centro storico di Monfalcone; l'incuria inspiegabile che, dopo i bombardamenti della prima guerra, condannò alla distruzione importanti chiese interamente affrescate come quella cinquecentesca di San Polo, il patrimonio culturale di questo piccolo lembo di terra giuliana è stato irreversibilmente impoverito. Questi furono anche gli anni tragici dell'internamento in campi profughi in varie località dell'Austria (come Wagna) e dell'Italia di moltissimi bisiachi. Si trattò di esperienze durissime, per non dire traumatiche, che segnarono profondamente l'animo di un'intera generazione, testimoniate negli straordinari diari di Tita Adan come nei sonetti, solo in apparenza ironici, di Sabbadini.
Alla fine del conflitto il Territorio fu riunito con il Regno d’Italia e nel 1923 assegnato alla provincia di Trieste.
Durante la seconda guerra mondiale, invece, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, il 15 ottobre il Territorio ritornò nuovamente a far parte, com’era accaduto in epoca napoleonica, di una regione fittizia istituita dalle autorità germaniche: la Zona di operazione del Litorale Adriatico. Questa zona comprendeva anche tutto il Friuli, l’Istria e la Slovenia, e fu liberata dalle truppe partigiane jugoslave, italiane assieme a quelle regolari anglo-americane. In seguito per quaranta giorni il Territorio fu occupato dai reparti jugoslavi, fino al 12 giugno 1945, quando passò sotto il Governo Militare Alleato anglo-americano in attesa del trattato di pace tra l’Italia e le potenze vincitrici, trattato che fu firmato, a Parigi, il 10 febbraio 1947.
Da quel momento, Monfalcone e parte del goriziano - la zona che attualmente costituisce la provincia di Gorizia - diventarono definitivamente parte dell’Italia pur continuando a vivere tutte quelle problematiche, sia positive che negative, comuni ad altre aree di confine. Problematiche che spesso, come si è visto, hanno avuto origine spesso in anni lontanissimi, facendo dell'instabilità, della mancanza di riferimenti precisi e fissi con cui rapportarsi (a partire dalla classe dirigente) quasi un patrimonio genetico di queste genti per secoli abituate a subire invasioni, saccheggi, dominazioni straniere.
Alla fine di questa rapida (e necessariamente riduttiva) cronistoria delle genti bisiache, l'analisi più lucida finora del tardo sviluppo culturale di questa zona mi sembra, ancor oggi, quella descritta nel suo saggio letteratura in bisiaco da Pier Maria Miniussi: "Posto ai margini di una regione periferica e povero di risorse naturali, inospitale e malsano a causa delle paludi che occupavano buona parte della sua limitata estensione, il Territorio era predestinato all'emarginazione economica, sociale e culturale e la storia non fece altro che assecondare questa sua vocazione. Per tutto il Medioevo, l'appartenenza ad uno stato feudale come quello patriarchino, più vicino al mondo tedesco che a quello italiano, tenne la civiltà comunale lontana da Monfalcone ed impedì alla città, che pure come sede di muda (dogana) godeva di un certo benessere, di dotarsi di una borghesia imprenditoriale e mercantile che facesse da volano al suo sviluppo civile e culturale; d'altra parte, l'angustia e la povertà del Territorio impedirono la formazione di una nobiltà indigena e l'insediamento di centri di vita religiosa, che a loro volta assumessero, come invece avveniva nel Friuli, la leadership politica ed intellettuale della zona. Il passaggio alla Repubblica veneta peggiorò la situazione del Monfalconese, che dopo Worms divenne una enclave in territorio ostile, oggetto di saltuarie ed insufficienti attenzioni da parte del governo veneziano al quale interessava solo quale avamposto militare o come moneta di scambio in caso di negoziato con gli Asburgo per il recupero pacifico di Gradisca. In questa contrada povera, spopolata e teatro di ricorrenti eventi bellici, il seme di una qualche attività culturale non poteva trovare terreno fertile".
Gli anni della dominazione asburgica, del resto, da questo punto non favorirono - ma piuttosto ostacolarono - il nascere di una intelighenzia locale anche se, come abbiamo visto, la Bisiacaria non era certo sprovvista di studiosi o artisti (come Marianna Pascoli, amica del Canova) noti anche all'estero. La mancanza di una vera autonomia o libertà caratterizzò così, da sempre, la vita di queste genti. Autonomia e libertà che necessariamente sono state ricercate allora - perché forse altro non si poteva fare - in un atteggiamento interiore di orgogliosa appartenenza alla propria comunità, al proprio linguaggio, ai propri luoghi (il che ha favorito invece il nascere di una cultura popolare ricca ed interessante) creando così, sulla terraferma, una sorta di isola i cui confini erano, per chi li abitava, solo quelli naturali del Carso e dell'Isonzo. Confini facilmente attraversabili, sì (anche se, ricordiamo, il primo ponte in legno sull'Isonzo, fu costruito a Sagrado soltanto nel 1845), ma allora sufficienti a dividere nettamente, pacificamente ma senza possibilità di confusione, gli abitanti della Bisiacarìa dai vicinissimi friulani e sloveni. Confini che hanno reso possibile la conservazione, di conseguenza, di una parlata e di una cultura dai tratti così particolari fin quasi ai nostri giorni.
Più che da una perseguita volontà di isolamento, questo senso dell'appartenenza ad un gruppo ben preciso, con le sue leggi comportamentali ferree sebbene non scritte, ha però forse la sua origine in un'estrema ricerca di difesa: difesa di se stessi dallo smarrimento, dal timore di sparire senza lasciare altro che labili tracce dietro di sé come i tanti, provenienti dai paesi più diversi, che hanno attraversato queste terre di frontiera.
(IMMAGINE TRATTA DAL SITO DELLA BIBLIOTECA
COMUNALE DI MONFALCONE)
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