lunedì 3 novembre 2008
Como scrìvar par bisiàc? / Come scrivere in bisiaco?
Chiunque abbia avuto la fortuna di conoscere persone che avevano conservato la parlata bisiaca degli inizi del secolo scorso, si rende immediatamente conto della profonda trasformazione che il bisiàc ha subito in questi ultimi ottant’anni. Non che oggi non ci siano più persone che parlano un buon bisiàc, anzi: sono ancora molte e, tra queste, anche molti giovani. Ma, in generale, la tendenza è quella, pur mantenendo certe particolarità specifiche, specialmente nei centri più grandi, di uniformarsi a quella koinè veneto-triestina, molto italianizzata, ormai conosciuta e parlata addirittura anche a Cervignano e Gorizia accanto al friulano. I molti immigrati, provenienti dal resto d’Italia e dall’estero, la tendenza a spostarsi di più rispetto a un tempo per lavoro, l’influenza della scuola e dei mass media, conducono a questo, si sa, ed è un fenomeno comune ormai ad ogni paese del mondo.
Nel nostro specifico caso chi scrive in dialetto, quindi, si trova davanti un grande interrogativo: a quale parlata ci si può riferire, a quella non ancora inquinata, registrata dal Vocabolario fraseologico del dialetto bisiàc, o a quella di ogni giorno, legata ai mutamenti della società, influenzata magari da termini di famigliari o amici non bisiachi, aperta per sua natura ad accogliere in sé vocaboli italiani, inglesi, ecc.?
Pensiamo che ambedue le strade possano portare a risultati, anche dal punto di vista creativo, ugualmente interessanti, e questo è dimostrato non solo dai tanti poeti e narratori bisiachi, ma anche e soprattutto dall’uso che si fa del dialetto non solo in Italia ma anche all’estero. Pensiamo ad esempio al grande poeta triestino Cergoly, maestro nel mescolare splendidamente al proprio dialetto termini derivati da diverse altre lingue.
Tutto ciò dovrebbe essere fatto seguendo comunque almeno alcuni semplici criteri di base e, a partire da queste considerazioni, vorremmo qui di seguito, allora, offrire ai nostri lettori alcuni consigli e riflessioni. Il nostro Vocabolario, anche da eminenti studiosi, è considerato un testo esemplare per il rigore con cui è stato realizzato. Purtroppo, in commercio è molto difficile trovarne qualche copia, però vorremmo invitare tutti coloro che scrivono in bisiàc a leggere, nell’Introduzione, almeno le tabelle con i segni grafici convenzionali e delle preposizioni semplici e articolate. Questo perché? Perché, anche se si decide di impiegare altri termini o altre forme verbali rispetto a quelle fissate nel Vocabolario, queste indicazioni possono essere di grande utilità e dare un maggior ordine e coerenza strutturale alla propria scrittura. Quindi se desidero scrivere “ta la”, non ha alcun senso scrivere, come alcuni fanno, “t’ala”, “tala” ecc. In questo caso, è come se in italiano, invece di “nella”, decidessi di scrivere “n’ella”. Un puro arbitrio. Un errore che qualsiasi persona, scrivendo in lingua, non si sognerebbe mai di fare. La stessa persona però, quando scrive in dialetto chissà perché, invece non si fa alcuno scrupolo di rispettare le più elementari norme grafiche che hanno, lo sottolineiamo, lo stesso valore di quelle contenute nei più illustri dizionari della lingua italiana. Questa ignoranza, comprensibile tra le persone più anziane che non hanno avuto la possibilità di studiare, in altri non ha più alcuna ragione d’essere a meno che - ma con quali argomenti scientifici altrettanto validi? - a queste elementari norme grafiche non si voglia attribuire alcun valore.
La “x” invece viene usata, secondo una vecchia consuetudine veneta, unicamente per scrivere la voce “xe” dell’ausiliare “éssar”. I moderni studiosi tendono ormai a sostituire “xe” con “ze” poiché pronunciando esattamente la “x” si verrebbe a creare un termine che non c’entra nulla con quello d’origine. Solo in quest’unico caso - poiché esiste una lunga tradizione, accettata anche dagli studiosi - si può comunque impiegare la “x”: sbagliato quindi adoperarla per scrivere “xorno” al posto di “zorno”, “xal” al posto di “zal”, “mexo” per “mezo”, ecc.
Diversa invece è la questione delle pronuncie. Vi sono nella Bisiacaria paesi in cui oggi alcune parole vengono effettivamente pronunciate diversamente da come sono state registrate dal Vocabolario. Anche in questo caso la ragione è semplice: i compilatori, tra le due versioni, hanno giustamente scelto di riportare quella più antica. La “zeta” sorda aspra (pronunciata però molto diversamente da quella usata dai triestini), impiegata anticamente per dire “zena”, “senza”, negli anni è stata invece sostituita largamente con la “s” sorda aspra. Questo è un fenomeno comunque non moderno, se anche in alcuni dei paesi più conservativi molti anziani dicono “sensa” o “sigar” al posto di “zigar”. Per cui anche qui è possibile (anche se non del tutto filologicamente esatto) scrivere “sercar” al posto dell’originale antico “zercar”, “sespa” al posto di “zespa” e così via. Assolutamente sbagliato, invece, è sostituire la “esse” sorda alla “zeta” sonora, come alcuni fanno, scrivendo “sugar” per “zugar”, “sornada” per “zornada”, “versar” al posto di “verzar” poiché, in questo caso, la lettura diventa difficilissima e certi termini rischiano addirittura di sostituirsi ad altri con diverso significato, come appare chiaro nel primo esempio riportato in cui “giocare” viene letto come “asciugare”. Si tratta anche qui di semplici accorgimenti, impiegati, del resto, già nei testi veneti di cinquecento anni fa.
Sappiamo inoltre che in tutti i dialetti di tipo veneto, la particolare pronuncia della nasale “emme” seguita dalle labiali “pi” e “bi”, diventa “np” e “nb”. Per cui, proporremmo che se non si vuol scrivere “tenp” ad esempio, perché si preferisce la forma più moderna, italianizzata, si potrebbe almeno cercare di scrivere “tenpo” o “canpo” al posto del più corretto “canp”.
Certamente non appartengono nel modo più assoluto al bisiàc tutte quelle forme, mutuate dal triestino e dai dialetti istriani, che finiscono in “ado” come “andado” per “ ’ndà”, “ciapado” per “ciapà”, o quelle in “ai” come “andai” per “ ’ndadi”, “scampai” per “scanpadi”; in er” come “figher” per “figar” o “vedèr” per “védar”.
Anche, solo per fare alcuni tra i tanti possibili esempi, “giogar” per “zugar”, “nudar” per “nodar”, “piada” per “pedada”, “picio” per “pìzul”, “disi” al posto di “dise”, “senti” al posto di “sinte”, “ndavi” al posto di “’ndave” ecc. sono tutti termini o forme verbali importati tra gli inizi e la metà dello scorso secolo. Lo stesso discorso vale per tutte quelle parole tronche come “tut”, “fat”, “vist” quando riacquistano la vocale finale.
Per cui nessuno, lo ribadiamo, può impedire di usarle, ma non è nemmeno possibile tentare di spacciarle come autenticamente bisiache.
La mancanza di una secolare tradizione di scrittura in dialetto, come è accaduto altrove, non ci ha abituati a dare troppo peso a queste norme basilari che sono, invece, di grande importanza e, se seguite, andrebbero a vantaggio di tutti. Ognuno poi, ovviamente, è certamente libero di scrivere impiegando quelle parole che sente più vicine. Ma un testo pieno di incoerenze, dal punto di vista della grafia, con parole che vengono scritte una volta in un modo e una volta in un altro, non aiuta nè l’autore nè il lettore e rischia di confinarlo ingiustamente, anche se di buona qualità, nel territorio delle improvvisazioni.
Per fare un esempio invece positivo, ancora relativamente vicino nel tempo, quando la rivista “La Cantada” è stata diretta da Aldo Buccarella, alcuni anni fa, la cura nella redazione di testi non tutti necessariamente scritti in un “bisiàc patoc” (garantendone una certa omogeneità dal punto di vista della grafia), ha fatto sì che i vari interventi si leggessero con piacere, senza quel senso di smarrimento che a volte si prova nel trovarsi di fronte a grafie che danno l’impressione di essere state inventate lì per lì dagli autori.
Per ritornare al discorso di prima, non è quindi possibile impedire ad una persona di scrivere “pescai” al posto di “pescadi” o “giogo” per “zugo” ( in quanto termini che fanno parte di un vissuto che dev’essere rispettato), ma può essere utile almeno far notare che scrivendo “sornada” per “zornada”, o “xugar” per “zugar”, sta facendo qualcosa che non ha alcun senso dal punto di vista linguistico.
Il discorso fatto fin qui, ovviamente, può valere soltanto per quelle pubblicazioni che non abbiano qualche finalità di tipo scientifico. In questo particolare caso, l’unico riferimento affidabile, l’unica vera pietra di paragone, rimane a tutt’oggi il grande Vocabolario fraseologico del dialetto bisiàc.
Comunque la cosa più importante, lo ripetiamo, è non aver nessun tipo di paura a scrivere nel nostro dialetto. Racconti, poesie, barzellette, ricordi: mettete sul foglio tutto quel che sentite dentro di voi, con le parole che preferite, perché la cosa più importante, la cosa fondamentale è che si continui a scrivere e parlare in bisiàc. Poi, se qualcuno ha bisogno di una mano perché ha dei dubbi su qualcuna delle parole impiegate o sulla grafia dei propri testi, o se desidera conoscere meglio la nostra parlata antica, nella nostra sede troverà sempre qualcuno disposto ad aiutarlo.
Speriamo di aver risposto, almeno in parte, alla domanda iniziale e...cosa dire ancora? Buona scrittura a tutti!
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1 commento:
eco, pian pian, zidina, vegno vizin, a zercar de 'nparar
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