martedì 22 giugno 2010
Sul termine "Marangon": alcune riflessioni di Mauro Casasola
Lo svasso e il tuffetto sono due specie della stessa famiglia (Podicipediformes) che hanno la caratteristica di immergersi in acqua accentuando con la testa il movimento e simulando un "tuffo". Da qui tuffetto in italiano e cavriola (capriola) in bisiac per lo svasso. Sempre in bisiac e(e in triestino) abbiamo anche magnabalini, termine molto diffuso, che indica in prima battuta il tuffetto ma per estensione anche lo svasso (vengono confusi). Mi sembra plausibile pensare che il termine magnabalini tragga la sua origine dal fatto che il tuffetto entri in acqua "tuffandosi" quasi come se volesse andare a mangiarsi i pallini da caccia che non lo hanno colpito. Se fosse così sarebbe un termine che deriva dal mondo della caccia (non vedo altre strade) e questo spiega perché il Brumati nei suoi atlanti ottocenteschi riporta per questa specie solo il termine sfrìsul (antico, oggi quasi desueto). Infatti nella prima metà dell'ottocento la caccia con armi da sparo non era ancora diffusa se non tra i nobili (non so nemmeno se eiseva già il fucile a pallini)e pertanto non abbiamo ancora magnabalini.
Questo per dire che le due (in realtà tre) specie, che hanno la stessa caratteristica di entrata in acqua e vengono spesso confuse.
Non godono della stessa particolarità gli smerghi (che appartengono agli Anseriformi), anche se anch'essi sono uccelli d'acqua. Devo subito dire che le due specie di smerghi nella classificazione non hanno a che fare nemmeno con i Phalacrocoracidae, ovvero con la faiglia dei cormorani.
Però, nonostante le diverstià di classificazione, la cultura popolare ha avvicinato e confuso spesso gli smerghi con i cormorani (ma anche con le strolaghe, ad esempio, che sono di un'altra famiglia ancora). Per il bisiac, ad esempio, sia lo smergo maggiore che i cormorani (tutte e tre le specie) prendono il nome di smergon. Ancora sempre sia lo smergo maggiore che tutti e tre i cormorani possono prendere il nome di marangon.
In italiano, delle tre specie di cormorano, una è detta sia cormorano (più forbito) che marangone (prestito dai dialetti) mentre le altre due specie sono dette marangone minore (mai cormorano minore) e marangone dal ciuffo (mai cormorano dal ciuffo). Credo che le due specie minori, in quanto distinte solo da alcuni, abbiano mantenuto solo il nome di origine dialettale.
Vengo al punto: una delle caratteristche di entrambi gi smerghi (quella che "salta all'occhio") è di avere il becco seghettato. Il becco a sega è una delle pecularità che permette di individuare gli smerghi. Non sono un esperto ma davo quasi per scontato che il termine marangon si riferisse al becco a sega e che fosse passato in un secondo momento a definire anche i cormorani, che non hanno il becco a sega ma sono confusi ai primi per altre caratteristiche morfologiche.
Ripeto, i "tuffi" sono invece caratteristiche più proprie di svassi e tuffetti.
Quindi, da quel che posso dire, mi sembra più che logico che gli smerghi abbiano preso il nome di "falegname" per il loro becco a sega e che questo nome sia passato solo in un secondo momento a indicare i cormorani che il becco a sega non ce l'hanno ma hanno altre caratteristiche in comune con gli smerghi. Tra l'altro lo smergo maggiore nel bisiac viene pure detto seghet (informazione orale, il Vocabolario Fraseologico del dialetto bisiac non riporta questo termine) proprio per il suo becco.
Credo quindi che è il falegname che da il nome all'uccello e non viceversa. Così come la monachella è un uccello che assomiglia ad una monaca con il velo e non la monaca con il velo assomiglia all'uccello.
martedì 13 ottobre 2009
A Ivan Crico il premio nazionale di poesia Biagio Marin
Da "Il Piccolo" 11.10.2009
Sabato 17 ottobre saranno consegnati i riconoscimenti ai vincitori del “Premio nazionale Biagio Marin” edizione 2009, da quasi vent'anni il maggior premio dedicato alla poesia nei dialetti e nelle lingue minoritarie in Italia, nato per ricordare l'opera e la figura del grande poeta gradese.
A testimonianza della riconosciuta serietà del premio, la giuria ha la facoltà di premiare difatti, oltre ai libri presentati, qualsiasi altro volume in dialetto o saggio edito in Italia negli ultimi due anni. Nel tempo la commissione giudicatrice è stata composta, fin dagli inizi, dai maggiori studiosi e poeti italiani, dal compianto Carlo Bo a Franco Brevini, da Pietro Gibellini a Franco Loi, da Edda Serra a Giovanni Tesio. Tra i vincitori delle scorse edizioni inoltre troviamo alcuni tra i più significativi poeti in dialetto e studiosi del Novecento: basti qui ricordare soltanto i nomi di Paolo Bertolani, Enesto Calzavara, Amedeo Giacomini, Franca Grisoni e, per la sezione dedicata alla saggistica, Dante Isella, Cesare Segre, Alfredo Stussi.
Quattro sono le persone che riceveranno il prestigioso riconoscimento. All’unanimità la giuria ha deliberato di assegnare il premio Marin di 5000 euro ex aequo al poeta bisiaco Ivan Crico, per la raccolta “De arzent zu-D’argento scomparso”, edito dall’Istituto Giuliano di Storia, Cultura e Documentazione e al brianzolo Piero Marelli per la silloge “I nocc-Le notti” edita da Lieto Colle. Ne dà notizia la presidente del Centro Studi Biagio Marin, Edda Serra. La giuria del Premio per la poesia in dialetto edita formata da Franco Loi, Giovanni Tesio, Pietro Gibellini, Gianni Oliva, Edda Serra e Flavia Moimas, si è riunita a Brescia e ha stabilito altresì di assegnare altri due premi. Quello riservato alla personalità che nel corso della sua attività ha onorato la poesia in dialetto e contribuito alla sua conoscenza, sempre con giudizio unanime, è stato assegnato a Lucio Felici, al quale va il premio del Comune di Grado di 2500 euro. Felici è noto per i suoi studi su autori in romanesco dal ‘300 a oggi e sui poeti di marca Trevigiana, in particolare Calzavara e Zanzotto. Infine, sempre all’unanimità, per la saggistica su Biagio Marin e il suo mondo il premio sarà assegnato a Caterina Conti per la tesi di laurea “I diari e le lettere di Falco Marin: slanci idealistici ed esperienza militare” discussa all’Università di Trieste.
La cerimonia di consegna si terrà a Grado (GO) il 17 ottobre alle 17.30 nella sal consiliare del municipio.
giovedì 1 ottobre 2009
SULL’ORIGINE DELLA PAROLA MARANGON(E)‘FALEGNAME’
DERIVAZIONE O COMPOSIZIONE?
SULL’ORIGINE DELLA PAROLA MARANGON(E)‘FALEGNAME’
Christian SCHMITT
Universität Bonn
Ci sono alcune etimologie che, una volta discusse, non vengono in seguito più prese in considerazione; altre invece costituiscono una sorta di problema costante visto che sulla loro origine gli studiosi non hanno potuto trovare un accordo e certamente non lo troveranno mai. Un caso simile si ha in italiano con trovare(fr. trouver). Su questo verbo sono stati fatti studi così numerosi che risulta impossibile riassumerli tutti in un unico lavoro (cfr. Schmitt 2001); con tutti i saggi che sono usciti sulle riviste dal titolo trovare / trouver–e senza tenere conto dei vocabolari– si potrebbe scrivere una storia scientifica che sicuramente dovrebbe includere nomi quali: Paris (1877; 1878; 1897; 1902), Baist (1888), Braune (1894), Schuchardt (1896; 1899; 1903-04), Thomas (1980; 1902, 1904), Meyer-Lübke (1907), Kluyver (1909), Haberl (1910), Wagner (1921), Beyer (1934), Rice (1934), Spitzer (1941), Heisig (1947/48), Jud (1950), von Richthofen (1951), Sandmann (1952), Calonja (1955) così come molti altri. Ogni romanista sa che proprio questo difficile problema viene continuamente ridiscusso sia nei manuali sia nelle varie introduzioni e viene ancora oggi menzionato come esempio paradigmatico.
Non è questo il caso del termine marangone‘falegname’. Questo venezianismo, sinonimo per maestro d’ascia, è stato spiegato etimologicamente da Frey con un’interpretazione storica della parola che non ha preso in considerazione il suo oggetto concreto: Si usa spiegare la voce marangon‘falegname’ partendo dal fatto che la parola originariamente significava un uccello acquatico, lo smergo. Passò poi a designare l’uomo che si tuffava per procedere a riparazioni alle parti subacquee della nave. Infine, dalla sfera della costruzione navale, la parola passò anche in quella dell’edilizia, dove marangon si diffuse definitivamente col significato di falegname. (Frey 1962, 43 sg.)
L’acrobazia fonetica non ha evidentemente disturbato nessuno e l’etimologia di Frey è stata più o meno accettata da tutti i dizionari etimologici (cfr. Schmitt 1979, 136). La cosa che più sorprende è che anche la spiegazione della realtà è stata accettata senza commenti dagli studiosi italiani i quali, di solito, sono abbastanza critici. Certo bisogna fare un bello sforzo
d’immaginazione per partire dal presupposto che con un moto ondoso pericoloso, il marangone / maestro d’asciaabbandona la nave per eseguire delle riparazioni direttamente in mare; peccato però che queste non siano realizzabili in acqua per assenza di gravità.
Nello Scritto in Onoredi Heinrich Kuen ho fatto notare come l’etimologia proposta da Frey non sia sostenibile dal punto di vista fonetico e non renda giustizia ai principi della teoria delle parole e cose. Come nuova etimologia ho proposto il lat. marra‘zappa, scure da ricollegare’ al suffisso derivazionale -anco(cfr. spa. ojanco‘con un occhio solo’, port. burranca‘imbecille’, ita. pollanca‘pollastra’, etc. (cfr. Hubschmied 1939, 245 seg.); questo morfema, produttivo sopratutto nel nord d’Italia –fatto comunque non rilevante ai fini della spiegazione etimologica–, non viene però ricollegato ad un influsso germanico giacché lo si può anche documentare nei toponimi sardi e còrsi (Schmitt 1979, 145).
L’accostamento etimologico marra+ -anca‘ascia’ (strumento dunque del maestro d’ascia) «non sta nel firmamento degli asterischi» ovvero non è un’ipotesi; questa formazione corrisponde morfologicamente al sicuro punto di partenza *matteanca‘roncola’ che a sua volta costituisce la base etimologica dell’antico italiano mazzeranga‘mazza, battente’ e di mazzerangare(REW5425) e fornisce la conditio sine qua nonper il còrso marranca ̄v. tr. «sarcler à l’aide du bêchoir lourd, étroit et effilé, conçu notamment pour l’arrachage des pommes de terre» (Ceccaldi 1968, 226b) et l’ita. marrancio (Malogòli 1939, 227).
Le considerazioni già fatte non verranno ripetute in questo contributo, così come si accennerà solo marginalmente al fatto che anche la campana con cui i lavoratori venivano chiamati al lavoro, la marangòna(Boerio21856, 396b), può essere messa in relazione senza difficoltà con il lat. marra(REW5370).
Questa nuova spiegazione etimologica ha preso in considerazione anche la valenza culturale e la funzione pratica dell’oggetto. Pasquier, autore delle Recherches de la France (1555-1615), conferma parimenti che la campana segnalava la fine del lavoro: la coccia della campana veniva battuta con una zappa e il suono che ne scaturiva, il tintamarre, annunciava lo stacco dal lavoro: [...] or disent les bonnes gens du pays qu’ils avoient ouy qu’autrefois le premier qui donnoit advertissement aux autres avoit accostumé de tinter dessus ses marres avec une pierre, & tout d’une suite commençoit à huer apres ses autres compagnons: Car Marre, comme vous sçavez, est un instrument de labour emprunté mesmement du Latin (..), dont est venu que presque en la pluspart de cette France nous appellons marrerles vignes, ce qu’és autres endroits Labourer. Parquoy ce
ne sera point à mon jugement mal deviner d’estimer que d’autant que au son du tintqui se faisait sur la Marres’excitoit une grande huée entre Vignerons, quelques-uns du peuple François advertis de cette façon ayant appelé Tintamarreà la similitude de cecy, tout grand bruit & clameur qui se faisoit. (1621, libro 8, III; Schmitt 1977, 141) Non vi è dubbio che il fra. tintamarreè una formazione creata del lat. tinnitare‘tingere, tintinnare, risonare’ (FEW113, 1, 346b) et il lat. marra ‘zappa’ (FEW6, 1, 375b) come del resto hanno già riconosciutu Ménage (2650, 626) e Littré (3, 2227a). Dunque il fra. tintamarre e l’ita. marangona‘la campana che chiamava al lavoro gli operai’ hanno un elemento in comune: il lat. marra‘zappa’.
In un contributo apparso nella rivista Lingua NostraGiovanni Petrolini ha affrontato di nuovo il problema dell’origine di marangone / marangona. Siamo d’accordo con lui nell’affermare che il più antico significato documentato sia quello di ‘carpentiere navale’, senso «già ben documentato nel XIVsec. [...], in testi sia volgari [...] sia latini» (1996, 34a) e che «il passaggio di ‘marangone’ dall’originario significato di ‘marangone da nave’ a quello secondario di ‘marangone da case’ ovvero di ‘carpentiere edile’, dovette avvenire molto presto» (34a); ma già Frey (1962, 48) non aveva affermato nient’altro che questo.
Contrariamente a Giovanni Alessio, che aveva postulato un legame etimologico tra marangone‘falegname’ e marangone‘palombaro, tuffatore’ propriamente e originariamente ‘smergo’, uccello marino che si tuffa (1951, 68), Petrolini relega questa relazione «nel mondo delle favole» considerandola una pura invenzione, poiché –e in questo caso a ragione– non vede perché si debba partire dalla teoria che, in caso di bisogno, il falegname debba trasformarsi in tuffatore:
Si vuole –com’è noto– che ‘marangone’ “carpentiere navale” derivi da ‘marangone’ “smergo” o “cormorano” o “svasso” ecc; insomma dal nome di una sorta di uccello marino che si immerge, che si tuffa, a sua volta dal lat. mergu(m)“id”, attraverso una forma più tarda ampliata in suffisso.
L’ornitonimo originario, passato a significare figuratamente “tuffatore, subaqueo”, si sarebbe ulteriormente evoluto al senso più ristretto di “subacqueo adetto a riparare navi” e infine a quello di “carpentiere navale”. Quest’etimologia, avanzata già nell’Ottocento dal Galvani [...] e, con qualche rettifica, accolta poi dal Flechia [...], che già a prima vista ha dell’incredibile, è ancor oggi accreditata da tutti i più autorevoli repertori etimologici e storici italiani. (Petrolini 1996, 346b) Anche con queste argomentazioni Petrolini sfonda delle porte già aperte e non fa che ripetere la mia tesi: in assenza di gravità un marangone non può lavorare (Schmitt 1979). È indiscusso che un’evoluzione del tipo mergus > *mergone > *margone > *maragone > ma-
rangone rimane formalmente senza riscontri e dunque abbastanza improbabile. Certo, con questo non si dice niente di nuovo sulla questione di un’origine comune di marangone(2) ‘falegname’ e marangone(1) ‘smergo, cormorano’, bensì solo sull’impossibilità di poter far derivare, anche una delle due forme, dal lat. mergu(m) ‘uccello acquatico’. Un altro etimo, comune a entrambe le forme romanze, rimane altamente probabile, in quanto da tempo non vale più l’asserzione che:
In ogni caso la singolare e pittoresca semantica per cui dal nome di uccello marino (lat. mergus) sarebbe derivato uno dei nomi di mestiere più illustri della tradizione artigiana di gran parte dell’Italia settentrionale (soprattutto nordorientale) è oggi dai più ritenuta credibile e [...] è generalmente accolta senza riserve. (Petrolini 1996, 36b)
Una tale interpretazione è valida per Frey (1962, 43), ma, in generale, non per la maggioranza degli studiosi di etimologia romanza. È altrettanto sorprendente che venga fatta una separazione tra l’origine del nome dell’uccello e il nome del maestro d’ascia senza accennare innanzitutto alle associazioni già fatte con la parola lat. marra‘ascia’. [...] l’origine [...] andrà ricercata nel lat. med. marangona, ‘grossa ascia del carpentiere navale’, attestato anch’esso già nel 1271 a Venezia nel cit. Capitulare de marangonis, dove si legge tra l’altro di «marangoneet serre», ovvero di ‘ascie e seghe’ v. GLI s.v. Si tratta evidentemente di grosse asce del tipo di quella che dovette essere caretteristica degli antichi carpentieri navali e che dovette essere lo strumento “eponimo” –se così si può dire– della loro categoria, quella cioè dei maestri d’ascia. (Petrolini 1996, 39a) Il collegamento formale e semantico di marangone‘falegname’ con la parola lat. marra, ‘ascia’ non è nuovo e fornisce il punto di partenza per una spiegazione già pubblicata in cui si richiamava l’attenzione sulla marangona ‘nome dato alla maggiore delle quattro campane di San Marco, quella che avvertiva l’inizio, le soste, la ripresa e la fine del lavoro degli «arsenalotti»’; una formazione, già analizzata da Boerio (21856, s.v.), per la quale esiste l’isosemia francese tintamarre, che rappresentava per Pasquier una formazione trasparente. Nei paesi di lingua romanza, al contrario di quelli di lingua germanica, il rintocco delle campane viene fatto generalmente con una «stanga di ferro» ovvero con una marra, come lo confermano anche nel port. marrão‘mazzetta di ferro’ e nel port. e spa. marra‘martello di ferro’ (REW5570); naturalmente per questo compito era adatta anche la marangona‘scure speciale che serve per squadrare i tronchi e farne travi’ (Tissot 1976, s.v.). È più che curioso il fatto che Petrolini rifiuti il mio suggerimento, del quale è venuto «a conoscenza solo quando questo lavoro [il suo, C.S.] era già sostanzialmente concluso» (1996, 40b), con la motivazione che l’esistenza di *marranconenon è stata documentata e che critichi in particolare il «passaggio fonetico piuttosto raro nc> ng(v. Doria 1976, s.v. marangon)», sebbene sia stato provato. Per avvalorare la sua spiegazione però, basata e spiegata soltanto dall’isomorfia francese e italiana marra-scure, marra-picca, pic-pioche, egli non esita a postulare la trasformazione fonetica nc> ngdefinita come «passaggio fonetico piuttosto raro»
(1996, 40b). È costretto a far questo perché altrimenti non potrebbe usare come spiegazione *marranga < marra‘ascia’ + rancare(variante assimilata di roncare < runcare‘zappare, sarchiare’). Questa parola, al contrario del morfema non motivato -anco / -ango, possiede inoltre l’evidente svantaggio di dissociare la famiglia di [ronk-] caratterizzata da un sicuro
nesso [-nc-]; insomma come se valesse anche in linguisticis: cum duo faciunt idem non est idem. A questo si aggiunga che, nella sua spiegazione, il significato di rancare ‘zappare, sarchiare’ viene così preparato, oserei dire quasi forzato, che finisce per essere adattato anche a marangona‘ascia del falegname’. In realtà il significato ‘disboscare’ dovrebbe essere dotato
di un asterisco in quanto non documentato, bensì dedotto, da un’etimologia presunta. L’ipotetica formazione *marra-rangaè semanticamente più difficile da accettare di marra+ -ancus / -angus, in più non è proprio seguibile il ragionamento per cui una valutazione diversa debba giustificare lo stesso fenomeno fonetico:
In questa nuova prospettiva non hanno più ragione di sussistere perplessità d’ordine fonetico espresso da Doria a proposito del passaggio -nc- > -ng-(documentato proprio dal passaggio dal lat. med. ranconus“grossa ascia” al trent. rangón“id.”) e vengono meno sia le difficoltà rappresentate dal presunto suffisso -anca / -angadi *marranca / *marranga(...). (Petrolini 199 42b). Dal momento in cui esiste il passaggio fonetico -nc- > -ng-deve esser valido per entrambi i casi: come ad esempio nel caso di lavanca / lavanga, avalanca(AIS I, 426s.) o come mostrano (Rohlfs 1930, 274; 1964, 553 sg.) i toponimi del tipo calanga / calanca(frz. calangue, gris. Val Calanca; calabr. kalanga). L’analogia progressiva è talmente frequente in fonetica
che non c’è neanche più bisogno di dimostrarla (cfr. anche *mattea > *mattea + -anca> ait. mazzeranga‘mazza’, REW5425, o la coesistenza di [masaNg], [masaNga], [masaNka] ‘falcetto / Gertel’ < *lat. *mattea, AIS 542). Questa situazione non è diversa da quella del tipo rank- / rang-che ho già impiegato nella mia spiegazione. Eppure nella relazione di Petrolini questa affermazione non irrilevante viene taciuta, e in maniera interessata: [Traduzione italiana, nam Germanica non leguntur]: Un’evoluzione parallela, addirittura un influsso reciproco di entrambe le forme non si può escludere. Da questo perciò non è improbabile che le forme rank-“ronca” (rankon, rankonela, raNkay, etc.) non proprio adeguate foneticamente al tipo principale ronka“Hippe” possano essere state influenzate almeno da marranca“falcetto”, parola non documentata su questa scheda (AIS 542) ma da noi postulata, anche se si dovrebbe concedere più credito alla spiegazione avvalorata dal verbo italiano (ar)rancare“vogare di forza” o da rampina(AIS III, 1388, 310; III, 542, 286, 285 etc.) ricorrente in alcuni punti.
(Schmitt 1979, 145). A questo punto mi sembra d’obbligo fare un’altra osservazione. Petrolini non scorda mai
di porre sopra marrancaun asterisco; se però ha letto, sebbene con ritardo, il mio saggio dovrebbe perlomeno accettare marranca senza asterisco poiché documentato dal còrso marranca ̄ «sarcler à l’aide du bêchoir lourd, étroit et effilé, conçu notamment pour l’arrachage des pommes de terre» (Ceccaldi 1968, 226b), che a sua volta presuppone una marranca«bêchoir»; in fin dei conti l’italiano è la madrelingua dei còrsi. Anche le riserve nei confronti di marranga dovrebbero essere superflue visto che esistono mara ̄ngol‘ranco’ (Peri 1847, 337a), marangol ‘piaghe, malattie’ e marágolo‘ragno’ (Monti 1845, 136) o anche maranga‘arruffone, chi lavora alla carlona’ (Lurati / Pinana 1983, 276). La debolezza delle argomentazioni e del ragionamento di Petrolini risiede però in un altro punto da lui toccato di sfuggita: l’eventuale relazione tra gli omofoni marangone‘maestro d’ascia’ e marangone‘smergo’. L’autore, difatti, si sbarazza del problema emarginandolo con
pochi commenti: Ma quella stretta relazione semantica che si è voluta istituire tra l’a. volg. e dial. ‘mar(a)gone’
“tuffatore, palombaro” (prop. “smergo”) da una parte, e l’a. ven. ‘marangone’ “carpentiere navale” dall’altra, a ben vedere non esiste o quanto meno si rivela troppo debole per poter giustificare la discendenza di questo da quello. (1996, 376)
Probabilmente questa affermazione va interpretata nel senso che si devono mettere in relazione rispettivamente marangone‘uccello acquatico’ con il lat. mergu(m) e marangone ‘maestro d’ascia’ con marra + ranca‘marra-scure’. Ancora una volta si ignora la mia proposta di collegare entrambi i termini con un solo etimo (Schmitt 1979, 148 sg.). Ancora più grave è il fatto che Petrolini non conosca lo studio dedicato a marangone‘smergo’ (Schmitt 1979/80) nel quale viene documentato il motivo per cui la storia della parola marangone‘smergo’ è così determinante per la spiegazione di mara(n)gone ‘maestro d’ascia’ ed è conveniente, anzi imperativo, postulare per entrambi gli omonimi uno stesso etimo. L’autore non ha fatto riferimento a un omonimo che ho già menzionato nell’interpretazione di marangone “falegname” (Schmitt 1979) ovvero: mar(an)gon(e) ‘smergo’. Gli è inoltre sfuggito che io, in un altro studio, avevo già messo in relazione marangone, magron, marguni, maragunicon marra(+ -ancu) e la sua famiglia (Schmitt 1979/80).
Lo studio etimologico viene descritto in maniera pertinente da Battista / Alessio (1952, II; 2359b) con le seguenti parole:
marangone1(maragóne, XVII sec. Oudin) m., XIVsec., ornit.: genere di uccelli palmipedi pescatori, cormorano, corvo di mare, lat. sc. phalacrocorax carbo; contaminazione di ‘marangone’ col tipo rappresentato dall’a. fr. corb mareng‘corvo marino’, ‘cormorano’.
L’aspetto negativo di questa spiegazione risiede in tre punti. Primo: essa non spiega in maniera plausibile in che modo possa essere avvenuta questa contaminazione. Secondo: identifica ingiustificatamente il corvo marinocon il cormorano. Terzo: considera solo gli aspetti formali, ma non quelli semantici. Inoltre questa interpretazione non tiene conto delle conoscenze della semantica comparata e risulta metodicamente arretrata rispetto ai principi della scuola delle
da un po’ di tempo, ha ridestato l’interesse specifico della linguistica cognitiva. Con il metodo teorico delle
ni degli Oddi (1929). Il loro lavoro, arricchito da molto materiale preciso, aspetta tutt’oggi di essere analizzato sistematicamente con la qualità e il livello dello studio di Riegler (Das Tier im Spiegel der Sprache, 1907), il quale ha esaminato cinque lingue europee moderne. Questa rammarichevole circostanza è spiegabile attraverso un spostamento d’interesse e
una crescente specializzazione nella filologia romanza. Per questa ragione le nostre conoscenze sui principi della nomenclatura di animali e piante nell’Italoromania rimangono ancora molto rudimentali e si limitano alle singole ricerche delle scuole di Jud e Jaberg. D’altra parte questo stato insoddisfacente della ricerca scientifica non deve fornire il pretesto per trascurare, in mancanza di studi fondamentali, monografie onomasiologiche o semasiologiche.
Se noi in questa sede riprendiamo entrambi i nomi più importanti di un uccello acquatico molto diffuso in Italia, nomi da tempo chiariti e presentati come aproblematici, in un raro caso di accordo comune, dai più quotati e pertinenti dizionari etimologici, lo facciamo essenzialmente per tre motivi:
–Primo: il fatto che la provenienza dell’ita. marangone“cormorano” dal lat. mergus “tuffatore, sommozzatore” conosce insormontabili ostacoli fonetico-storici, i quali, anche attraverso la ricostruzione ausilaria morfologica della contaminazione, non posso-
no essere eliminati.
–Secondo: la correzione apportata nel frattempo, alla spiegazione etimologica dall’ita.
marangone“carpentiere navale” (Schmitt 1979, 133-151) con cui si confuta il postulato sviluppo semantico dal lat. mergus“uccello acquatico, tuffatore” > it. marangone “uccello tuffatore” > it. marangone“falegname”:
–Terzo e ultimo motivo; il fino ad ora adesso ignorato parallelismo onomasiologico e semasiologico tra il nome di uccello italiano e i nomi di animali o di uccelli acquatici della stessa specie documentati nel greco antico, medievale e moderno, come anche la formazione completamente analoga in entrambe le lingue dei nomi del falegname e dello
scalpellino.
A questo punto desideriamo illustrare più da vicino le ragioni sopra menzionate esaminando in primo luogo la relazione esistente tra il lat. merguse l’ita. smergo / marangone. Farà seguito una breve considerazione sull’omonimia dell’italiano marangone“carpentiere navale” e mara(n)gone“uccello tuffatore”, e con l’aiuto di un parallelo simile greco e grazie a ul-
teriori isosemie speriamo di trovare la strada per nuova spiegazione. Sia per quanto riguarda il lat. mergus“tuffatore”, sia per gli ita. (s)mergo emara(n)gone è importante il seguente stato dei fatti: in latino mergusha fondamentalmente due significati:
“uccello tuffatore, smergo” (“avis quaedam quae ut cibum captet in aquam se mergit”) e il “reposso” (“sarmentum e duro excitatum”) entrambi ben documentati nella letteratura latina (Forc. III, 228b). Secondo le informazioni del REW(5528) questi due significati sopravvivono nelle lingue romanze; allo stesso tempo l’italiano (s)mergo e il galiziano mergo“corvina”
sono da considerarsi come i loro proseguitori diretti, foneticamente legittimi. Il sic. marguni, il gen. magrun, il lom. margone, il prov. margonrappresentano, invece, tutte delle derivazioni con il suffisso -ónem; va inoltre specificato che spesso, nella prima sillaba, si può osservare il ricorrente cambiamento fonetico panromanico della vocale atona rispetto alla pretonica e
> ae può essere osservata anche una contaminazione con il lat. mare[REW5349] estesa su un vasto territorio, che il Dizionario etimologicoUTET (1998, 269) spiega con un presupposto influsso paretimologico di mare. Questa contaminazione evidentemente non è comparsa nella derivazione con il suffisso -úlius(/ + -ónem) come mostrano l’occ. mergolh, il port. mer-
gulhão, etc. Difficili da chiarire rimangono invece – anche quando Meyer-Lübke non lo menziona – il si. maraguni e l’ita. maragone. Se, difatti, i sic. maraguni, maragan“rondine di mare” (Hillyer Giglioli 1907, 492 sgg.) e alcune forme regionali simili si possono ancora spiegare, in maniera più o meno soddisfacente, come formazioni dovute al fenomeno di una vocale epentetica o al cambiamento di suffisso manca invece, per i nomi ita. marangone“phalacrocorax carbo” e marrangone col ciuffo(Arrigoni degli Oddi 1929, 562 sgg.) etc. ogni parallelo, giacché non si può accertare in altri esempi l’inserimento della n. È per questo che anche i vocabolari etimologici italiani utilizzano la discutibile contaminazione dell’ital. (s)mergo“cormorano” con l’assai scarsamente documentato afr. corb mareng“corvo marino” (cfr. Frey 1962, 44).
Questa ibridazione però non è sostenibile già a partire dal punto di vista cronologico ed anche la spiegazione che si rifà all’ita. marangone“carpentiere navale” è stata considerata come costruzione sussidiaria di scarso aiuto (Schmitt 1979, 133 sgg.).
La postulata evoluzione dal lat. mergus(+ -ónem) > *mergone> *margone> maragone > marangone, asserita da Frey (1962, 46 segg.) a seguito della spiegazione di Flechia (1876), risulta difficile da seguire nel penultimo passaggio e, perlomeno nell’ultima tappa non è chiaro, direi quasi impossibile, come finisce con l’ammettere anche lo stesso Frey: “ La epentesi
della n, è vero, non è veramente frequente se non davanti alla s” (Frey 1962, 46). L’italiano marangone“falegname” e l’italiano marangone“cormorano” non sono solamente omonimi, bensí posseggono lo stesso etimo. Noi, in questa sede, non desideriamo di nuovo ripresentare la prova che crediamo di aver ampiamente fornito nello Scritto in Onoredi Heinrich Kuen (Schmitt 1979, 133-151); vogliamo invece riproporre succintamente solo i risultati di quello studio che si sono rivelati utili e necessari per l’approfondimento del tema qui trattato. In seguito alle spiegazioni fornite in quello scritto deve essere ribadito e deve valere come sicuro il fatto che: l’ita. marangone “carpentiere navale”, lessema irradiatosi da Venezia (cfr. AISII, 219),
deve essere messo in relazione con il lat. marra“zappa, ascia, falcetto (Gertel)”, l’utensile più importante per i falegnami.
–Il lat. marra“zappa, ascia, falcetto (Gertel)” non è solo il punto di partenza per i nomi di alcuni mestieri come il ven. marongon“scalpellino” (Pausch 1972, 179), ma, secondo le informazioni dei vocabolari regionali, designa ancora oggi in Italia i più svariati e di gran lunga diffusi utensili (da lavoro) come per esempio: la zappa, la scure / mannaia, il falcetto (Gertel), la roncola, lo scarnatore / il raschietto (Schaber), etc. Rimane infine oggettivamente infondata e linguisticamente non sostenibile la derivazione dell’ita. marangone“carpentiere navale” dall’ita. “uccello tuffatore” (“partendo dal fatto che la parola originariamente significava un uccello acquatico, lo smergo. Passò poi a designare l’uomo che si tuffava per procedere a riparazioni alle parti subacquee della nave”, Frey 1962, 43 sg.). Di conseguenza restano aperte fondamentalmente due plausibili opzioni chiarificatrici:
–Una è che l’ita. marangone“carpentiere navale” e l’ita. marangone“uccello tuffatore” sono due lessemi da considerare completamente separati.
–L’altra è che bisogna ricercare una radice comune a entrambi i lessemi, per cui sarebbe da escludere l’evoluzione semantica “uccello tuffatore” > “carpentiere navale”. Teoricamente rimarrebbe allora solo da dimostrare o il cambiamento semantico di “falegname” > “uccello tuffatore” o la combinazione di entrambi i lessemi con la sicura radice
lat. marra“ascia” dell’ita. marangone“falegname”. Un importante parallelo si ritrova nel greco pe/lekuj– pelekanÒj. I fatti, in greco più sicuri, più trasparenti e più comprensibili, sembrano offrire una buona possibilità di paragone per chiarire la situazione italiana. In Grecia, fin dall’antichità, vivono le stesse specie di uccelli acquatici chiamati in italiano (s)mergo e marangone; il “cormoranosi trova in tutte le lagune, in Maremma e nelle grandi paludi italiane, in Sicilia, in Corsica così come nei grandi laghi e nel Mare Egeo” (Keller 1913, II, 239); i nomi greci del cormorano, al contrario di quelli italiani, posseggono il vantaggio di essere chiaramente motivati e trasparenti per l’osservatore che li analizza dal punto di vista sincronico. Nella lingua greca antica, medioevale e moderna si è costituito accanto al nome di mestiere pelek£n“chi è boscaiolo per mestiere” (Demetrakos 1949, 5625; Stamatakos 1955, 2261; dal tardo greco antico, medioevale e moderno pe/lekuj“ascia, scure”) anche il nome di uccello pelek£ncon il significato rispettivamente di (1) “picchio” e (2) “pellicano”. Oltre a questi nomi, si è ritrovato il medioevale pelekanÒjaiquia“mergus, fulica” registrato in un glossario medioevale greco (Demetrakos 1949, 5625; Liddell/Scott 1953, 1357a). Il nesso diretto tra il gr. pe/lekuj“ascia” e il gr. pelek£n-anos“picus Martis, pelicanus” è così eviden- te che già l’umanista Henri Estiennne vi riconobbe la giusta etimologia (cfr. Stephanus 1829; VI, 696b). Entrambi i significati principali di pelek£n, anoj(“aiquia” e “xulourgÒj”) coesistono sin dal greco antico. L’omonimia tra il nome per falegname / scalpellino / boscaiolo e il nome per pellicano, picchio e folaga non ha creato problemi ai parlanti (Liddell / Scott 1953; 1357; Pas-
sow 1852-7; II, 540; Pape 1864; II, 539). Quest’omonimia si riscontra nel greco medievale (Lampe 1961; s.v.; Liddell / Scott 1953; 1357), anche se con leggeri spostamenti semantici, e si ritrova tutt’oggi perfino nel greco moderno (Stamatakos 1955, III, 2261a; Demetrakos 1949, VII, 5625; Arnott 1977, 335 s.). Certo è vero che pelekanojrimane oggi principalmente un regionalismo, o meglio un arcaismo che nel significato di “falegname, carpentiere” sta venendo sempre più soppiantato dall’italianismo neogreco maragkÒj, al punto che, col significato di “scalpellino”, si è conservato solo a Karpathos anche a svantaggio di petr£j(Andriotis 1974, 443). La sua sparizione, tuttavia, è da attribuirsi più a fatti culturali che a motivi
linguistici interni, soprattutto se si tiene presente che la terminologia tecnica marinaresca veneziana è stata determinante per l’intero Mediterraneo (Fennis 1978, 134) e che il veneziano maragoneè stato adottato perfino in turco (Battisti / Alessio 1952, III, 2359b). Contemporaneamente, come dal lat. securis“scure, ascia” > securigera“pianta dalle foglie asciformi ovvero a forma di ascia”, si è formato in greco pelekinoj“en forme de hache / a forma di ascia” (Carnoy 1959, 207) utilizzato per la denominazione delle piante: “comme nom de plante le mot s’explique soit par la forme de la graine, soit par la forme des folioles en coin” (Chantraine 1974, III, 874b). Rientra nella terminologia tecnica degli artigiani pelek£n “coda di rondine / queue d’aronde” (Liddell / Scott 1953, 1357b; Chantraine 1968, III, 174), un omonimo di pelek£n“pellicano” che non interferisce con la nostra interpretazione. Della spiegazione storico-linguistica dei derivati greci da pe/lekus“ascia”, colpisce che,conformemente a quelle derivazioni di cui si è parlato fino adesso, (come anche pelekanÒj “folaga (fulica)” tutte, senza esitazione, vengano ricondotte all’etimo [pelek-] “ascia”. Nel caso invece del gr. pe/leia“colomba”, che dal punto di vista semantico e fonetico sarebbe anche questo riconducibile a questo etimo, si parla, di regola, o di “etimologia sconosciuta (ap-
punto etymology unknown)” (Thompson 1966, 225 sgg.) o addirittura si preferisce l’aggettivo pe/lloj“grigio” (Chantraine 1968, III, 874b). Sebbene, poi, anche con la colomba per il suo becco ricurvo si riproponga la metafora con pelÒj“uncino, becco”, pe/lekuj“ascia” etc. Indipendentemente da quale sia la giusta interpretazione, possiamo comunque supporre che la derivazione da pe/lekuj“ascia” del nome greco per picchio e pellicano è sicura e che la motivazione per la costituzione del nome va ricercata nella forma particolare del becco e in particolare nella funzione di questa parte del corpo (specialmente per il picchio). Se si guardano le immagini del dizionario illustrato greco (Vostantzoglou 1975) che registra il pelek£noj “pthno” (64,5) e il pe/lekan“pouli” (64,27), “aiquiahkolumboj; me/rgojprosthj” (64,15), questa trasposizione di significato diviene facilmente comprensibile. Non rimane che concludere che senza ombra di dubbio si possono far derivare dal greco pe/lekuj“ascia, scu- re”, sia il nome per il falegname (neogreco pelek£noj“xulokÒpoj”, Vostantzoglou 1975, 39.10), sia il nome per il pellicano. La metafora greca facilita la comprensione dell’origine del nome italiano per falegname / scalpellino e pellicano / cormorano; basta spiegare brevemente il parallelismo della metafora. Per quanto riguarda l’ita. marangone “carpentiere navale” e marongon“scalpellino” (Pausch 1972, 179) basterebbe rimandare allo studio già pubblicato, nel quale è stato ampiamente spiegato il legame fonetico e semantico con il lat. marra, *marranca“falcetto, roncola, *ascia del falegname”. Queste formazioni hanno un loro corrispettivo nel gr. pe/lekuj> pelekanoj“scalpellino” (Andriotis 1974, 443).
Per quanto concerne la spiegazione a proposito dell’uccello acquatico ita. marangone “smergo”, che oggi, insieme con le sue varianti maragone, margone, marguni, mergo, smergo, smago, etc. (Hillyer Giglioli 1907, 492 sgg.; Arrigoni degli Oddi 1929, 561 sgg.) viene fatto risalire dai vocabolari etimologici italiani (Battisti / Alessio 1952; Devoto 1967; Prati 1969;
Migliorini / Duro 1974; Durante /Turato 1975, svv.; cfr. anche Battaglia 1975, s.v.) al lat. mergus“tuffatore”, è necessario aggiungere una precisazione e una analisi particolareggiata delle singole forme. Questo ulteriore riepilogo si rivela importante dato che criteri fonetici impediscono una spiegazione comune per le diverse forme quali: marangone, maragone(e simili) da
una parte e smergo, mergo, margone dall’altra. Queste ultime si possono ricondurre senza problema al lat. mergus“tuffatore, podicipidi” che nell’area mediterranea si usava per definire una serie di uccelli: la berta, lo svasso (maggiore o comune) o il colombo crestuto, i podicipedi, lo smergo maggiore / garganello (mergus merganser) e altri uccelli della stessa specie
tuffatori e palmipedi. Di questi il pellicano e il cormorano sono parenti così stretti, che sia Keller (nella sua relazione sul mondo degli animali antichi – Keller 1913, II, 237 sgg.), sia Boetticher (nel suo dettagliatissimo studio biologico – Boetticher 1957, 7-49), li trattano nello stesso capitolo. Questi animali hanno in comune il becco forte e possente e la consuetudine di
cacciare le loro prede tuffandosi. La caratteristica più vistosa per il pellicano è il becco “molto vistoso e assolutamente caratterizzante” (v. Boetticher 1957, 7), per il cormorano il “becco ricurvo all’apice” (Migliorini 1965, 783b) o “assai grosso, più lungo della testa” (Battaglia 1975, 763). Per quanto riguarda lo (s)mergo(< lat. mergus“tuffatore, podicipedi”), è stata proprio la
tecnica di caccia delle prede a fornire la motivazione per il suo nome. È da ricercare anche nel becco appuntito e possente (come in greco), il punto di partenza per la denominazione del marangone“cormorano” e del pellicano, i quali di regola vengono scambiati con lo (s)mergo (errore riscontrato già in Aristotele, HA VIII, 3, che chiamava il cormorano “cosiddetto corvo”). In questa sede, verrà solo accennato al fatto che il pellicano deve al becco l’introduzione nella poesia simbolica leggendaria dei Padri della Chiesa (e nell’arte sacrale cfr. Gerhardt 51 sgg. e fig. 1-32). Difatti come “effettivamente i genitori nel dar da mangiare ai piccoli appoggiano l’enorme becco sul petto per facilitare il rigurgito del pesce in parte digerito” (Keller
1913, 237), così i Padri della Chiesa, vedevano nell’atto nutrizionale di questi animali (e soprattutto nel loro petto lacerato, o colorato dal sangue dei pesci) un simbolo di dedizione e di autosacrificio. Usavano, dunque, il pellicano come simbolo per il Redentore, poiché credevano che egli tentasse di salvare i suoi figli dal morir di fame attraverso il proprio sangue (e la
propria vita) (v. Boetticher 1957, 15; Gerhardt 1979, 29 sgg.). L’adozione di questa credenza nelle leggende cristiane si deve a un sottogenere chiamato sacrificator(v. Boetticher 1949) e forse proprio questa interpretazione cristiana e la tradizione letteraria esistente (Gerhardt 1979, 10 sgg.) hanno contribuito alla nascita di un commovente libretto sui pellicani scritto da
Albert Schweitzer (Schweitzer 1950). Analogamente al gre. pelekanÒj“pellicano” (< pe/lekuj“scure”), anche gli ita. marangone,e maragone, maraguni(etc.) “cormorano” si sono formati dal lat. marra+ -anca+ -one.
Questo accostamento, il cui punto di partenza *marranca“scure” non verrà ulteriormente riproposto in questa sede (Schmitt 1979, 133 sgg.), non presenta alcun problema dal punto di vista fonetico ed ha senza dubbio un parallelo corrispondente in greco. È per questo che in Italia per la denominazione del cormorano, del pellicano, dello svasso (maggiore o comune), del colombo crestato o del cormorano medio (phalacrocorax aristo- tilis), possiamo partire da due generi: il marangone(< lat. marra“zappa”) e lo (s)mergo (< lat. mergus“tuffatore”) e, dato che entrambi i tipi di uccello denominano lo stesso animale, o due animali dall’aspetto molto simile, non sorprende l’esistenza molto diffusa di interferenze reciproche per entrambi i tipi.
In questa sede non possiamo né desideriamo parlare di tutte le forme, vogliamo piuttosto mostrare il tipo di problematica legata ad alcuni regionalismi (Hillyer Gigliolo 1907, 492 sgg.; Arrigoni degli Oddi 1929, 561 sgg.):
–i rispettivi: margone(Elba), mergone(Roma), marguni(Calabria), margune(Messina), magrón(Sardegna), smargon(Venezia), etc. si possono spiegare in maniera soddisfacente dal punto di vista formale come derivazioni dal lat. mergus+ -onem; questa suffissazione però non va considerata separatamente dall’ita. marangone.
–merangone“phalacrocorax carbo, famiglia dei falacrocoracidi” (Roma) corrisponde invece quasi completamente all’ita. marangone“id.” (Roma); in questo caso evidentemente il lat. mergusha influenzato il lat. marra.
–Il siciliano maragunie il sardo maraganetc. possono essere spiegati, anche se in modo complicato, come derivazione formatesi dal lat. mergusattraverso un processo di epentesi (Frey 1962, 46 sg.); si potrebbero ugualmente far derivare dalla formazione *marraca“zappa, becco”, derivata dal lat. marra“zappa” più il morfema produttivo -acu (Rohlfs 1969, 377 sgg.; Tekavciã1972, III, 96 sg.), ed entrata solamente in un secondo tempo in rapporto con il lat. mergus“tuffatore”.
In questo caso è difficile prendere una decisione, direi quasi impossibile; si dovrà fare una scelta separata per ogni singola forma rispettando gli aspetti fonetici e lessicali sia regionali che locali.
Rispetto ai tentativi di spiegazione presentati finora, la derivazione etimologica qui addotta possiede il vantaggio, per l’italiano marangone“cormorano”, di fornire, sulla base di re-
golarità morfologiche interne alla lingua e di possibili regole semantiche, una sicura spiega-
zione storico-fonetica.
Qui si riunisce formalmente ciò che già costituisce un’unità: l’omonimia tra il nome di uccello (marangone “phalacrocorax carbo”) e il nome del mestiere (marangone“maestro d’ascia”) non dovuta al caso, bensì ad una coesione etimologica. Non vi è alcun problema dal punto di vista semantico dato che esistono così tante isosemie che ci si potrebbe chiedere se ci sia cognizione analogica o se le forme italiane non dipendano da quelle greche, come induce a pensare la sinopsi semantica:
SINOPSI SEMANTICA
GRECO LATINO/ ROMANO
pe/lekuj‘ascia, scure’ marra ‘falcetto, zappa’
→mestiere(/i) →mestiere(/i)
–gr. pelekanÒj‘boscaiolo’, –it. marangone
‘falegname, carpentiere’ ‘maestro d’ascia’
–gr. pelekanÒj‘scalpellino’ –it. marongon‘scalpellino’
→zoologia →zoologia
–gr. pelekanÒj‘pellicano’ –it. marangone‘cormorano’
‘cormorano, picchio, ‘podicipidi, oca marittima (/pellicano)
podicipidi, corvo marino, cormorano medio, golondina
oca marittima (/pellicano)’, etc. marittima (rondine di mare), corvo
marino’, etc.
È possibile interpretare le forme italiane come calchi o come formazioni motivate attraverso concetti indotti dalla cognizione umana. Il problema è noto. Resta comunque in dubbio, se ci sia una soluzione generale per i nomi, basati su una cognizione o motivazione identica o se, anche in questo caso, non si debba piuttosto partire dalla teoria che ogni parola abbia una
propria storia. Per la maggior parte dei parlanti la tetta-capre“succ(h)iacapre, caprimulgo” evoca l’idea generale “dell’uccello che munge le capre”:
gr. aigoq»laj cat. xuclacabres, mamacabres
lat. caprimulgus spa. chotacabras
ingl. goat-succer, goat-milker port. chupacabras
fra. tette-chèvre ita. poppa-capre, tetta-capre, succ(h)ia-capre
occ. teto-cabro ted. Geißmelker, Ziegenmelker, Ziegensaugeretc.
Secondo l’interpretazione di Röntgen (1992, 111 sgg.) questi nomi motivati (FEW17, 337a) sono il prodotto di un processo di translazione che comprende culture e famiglie linguistiche diverse; egli però non fornisce argomentazioni e neanche prove a favore di questa posizione. Noi abbiamo tentato di dimostrare che una trattazione differenziata, che presti attenzione anche ai dettagli, è più adeguata alla problematica (Schmitt 1999, 410-463). Se la caratteristica saliente del pettirosso (1) è il petto rosso, non deve sorprendere che nelle lingue europee i nomi di questo uccello siano motivati da questo
1) gaelico bruindeargan, cimrico bronngoch, inglese robin redbreast, norvegese rodkjelk, svedese rödbröst, danese rodhals, olandese roodborst, tedesco Rotkehlchen, francese rougegorge, occitanico pitro-rodzo, colrós, catalano pit-roig, pita-ruig, basco txantxangorri, spagnolo petirrojo, portoghese paporouxo,pisco de peitoruivo, italiano pettirosso, retoromanico gulacotschna, rumeno guûa-roûie, greco kokkinolémis, albanese gushëkuqi, bulgaro cervenoguûka, russo zarjanka, lituano sartkrutitis, armeno karmralanj, caucasico cancaplé, etc. (Desfayes 1998, I, 924-932);
2) gaelico earr-darg dubh, cimrico tingoch du, norvegese svaart rø dstjert, svedese swartrödstjärt, danese husrödstjert, olandese zwaarte roodstart, tedesco Rotschwanz, francese rougequeue (noire), occitanico corousso, catalano cueta roig, basco butzangorr illun, portoghese rabo russo, italiano codirosso, spazzacamino, rusòcolo, retoromanico cuacotchen d’üert, rumeno codroûde munte, bulgaro domaûna cervonoopaûka, russo gorixvostka cernuûka, lituano dúminé randonuodegé, armeno syevowk karmratowt, ebraico hahlilit slayim, etc. (Desfayes 1998, I, 978-983).
Qui, come anche nel caso meno conosciuto del pettazzurro(o nei diversi dialetti: pettoceleste, peto blö, cuarrossa blö, carossi de la stela, cuarossa della regina, pecetto da sorchi) una poligenesi condizionata in maniera cognitiva è più probabile della supposizione di innumerevoli traduzioni, in sostanza non documentabili.
Non solo la postulata contaminazione dell’ita. (s)mergo con l’ita. corvo marengo(Battaglia 1975m 762 sg.), sostenuta da alcuni etimologi senza argomentazioni e di conseguenza anche senza traduzioni, farebbe supporre un altro risultato fonetico, ma anche la contaminazione dell’ita. (s)mergocon il francese antico corb mareng“corvo marino, (Meerrabe)” (Galli 1965, 247; Frey 1962, 44) per il quale non vi è alcuna pezza d’appoggio dimostrabile, finiscono per rivelarsi nulle.
L’ita. marangone“cormorano” e l’ita. marangone“falegname” rappresentano entrambi derivazioni dal lat. marra“scure”. Ciò viene chiarito dalla corrispondenza greca pelekanÒj“pellicano / picchio, falegname”, di cui c’è una traccia semantica, viva in tedesco, quando si parla del picchio come
È per questa ragione che una spiegazione, come quella proposta da Petrolini, si dimostra poco fondata, poiché soddisfa solo fino ad un certo punto le esigenze morfologiche, visto che *marra-ranca (ranga)può essere interpretata come forme isomorfica del fra. pic-pioche. Allo stesso tempo però, da una parte *marra -anca (ranga)dovrebbe essere tenuta separata da ma-
rangone“falegname”, dall’altra, non prende in considerazione il dato di fatto che la radice *marang-costituisce il punto di partenza di una famiglia linguistica, già chiaramente differenziatasi nel Medioevo, la quale si è sviluppata da marangone“(1.) smergo, (2.) falegname”, a marangona“(1.) campana che invitava i carpentieri al lavoro, (2.) moglie del marangone” fino
ad arrivare a marrancino“ladro, mariolo” (cfr. anche in fra. maraud, derivato di marra; Schmitt 1976). Dal punto di vista cognitivo tutte queste forme hanno come base il lat. marra, la cui sopravvivenza viene descritta al meglio dal FEW(6, 1, 375b) e dal REW(5370). L’ipotesi d’Alessio che presupponeva una trasposizione di *palumbaro →falegnamenon convince:
“Il sic. maranguni, marauni“uomo che tuffandosi in mare ripesca le cose cadute al fondo o racconcia qualche rotture delle navi”, “persona che passando a guado i torrenti porta sulle spalle i viandanti” [...] spiegano abbastanza bene come dal significato di «uccello acquatico» si sia passati a quello di “palombaro [...] e finalmente a quello di «carpentiere» (navale)” (1951, 68b). Questa ipotesi, che anche Petrolini rifiuta, à già stata meticolosamente confutata. E questo comunque non è il punto, visto che la postulata basisviene invece accettata anche da Petrolini (1996, 40b: che ha “[...] sostanzialmente ragione di conoscere l’origine di marangone in un *marranca, *marranga“ascia”) palesemente interessato a trovare una soluzione legata
ad un singolo lessema. Se, dal punto di vista cognitivo-scientifico, è giusto che ci sia “la tendenza a denominare
gli artigiani col nome degli arnesi che essi usano abitualmente e con maestria” (Petrolini 1996, 40o), ciò allora dovrebbe valere anche per il mondo animale, nel quale, le parti del corpo vi- stose e le pertinenze appariscenti degli stessi animali, essendo considerate degli
noto agli antichi da Aristotele a Plinio. Basta dare alcuni esempi che documentano questa regolarità (Desfayes 1998, II, 159, s.v. rouge, bleu sombre):
–escardenc “rouge” (FEW23, 185)
–cardinal “oiseau américain de couleur rouge”
–cardinal “bourreu”
–picchio cardinale “pic épeiche” (ita.)
–cardinal “bourreu” (port. reg.)
–kardeh “noirâtre” (iran.)
–scardalicchia “mésange bleue” (ita.: (otranto), cfr. scarda“florida, ragazza formosa”)
–hochequeue, caudatrémola, rabeta, coadabatura“batticorda” (Baumann 1967, 103- 123) etc.
Sono proprio queste ragioni a spiegare l’esistenza di nomi uguali per l’artigiano e l’uccello acquatico.
Rimane ancora un problema aperto, caro ad Alessio (1951), ma trattato solo marginalmente da Petrolini: la possibilità di un’interferenza greco-latina: “Secondo Alessio, il significato di ‘carpentiere’, assunto molto presto da ‘marangone’, non
dipenderebbe da quello di ‘tuffatore, palombaro’, ma sarebbe da collegare al neogreco pelek£noj ‘falegname, carpentiere’, propr. ‘pellicano (class. pelek£n, -anoj)’ o picchio (class. pelekaj, antoj)’. A suo avviso il venez. marangon‘carpentiere navale’ potrebbe rappresentare più precisamente un calco su una forma greco-bizantina diffusasi nel territorio dell’Esarcato di Ravenna, la stessa che sarebbe appunto alla base del neogreco pelek£noj‘id’”. Senza reali argomentazioni si inverte la questione riconducendola ad un’interferenza italo (latino)-greca: “È decisamente più probabile [...] che proprio il neogreco pelek£noj‘carpentiere’ (da pe/lekuj ‘scure, ascia, mannaia’) sia un calco sul veneziano marangón‘carpentiere’ che in questo significato è documentato a Venezia – non dimentichiamolo – già nel 1271” (Petrolini 1996, 36 sg.). Sicuramente non si può dare una risposta definitiva al problema. Certo ci sono più argomenti a favore della tesi che dimostra superflua la supposizione di una interferenza. Come abbiamo già dimostrato per il nome caprimulgo, la cognizione umana varia molto raramente e sembra assolutamente probabile che i greci ed i romani abbiano seguito gli stessi principi cognitivi e che, in questo caso, si debba favorire la tesi di una poligenesi basata sulla
che “l’uccello si distingue per il suo becco a forma di uncino”:
CORPOFONETICO/ BASI CONCETTO
1. hauwa“zappa, rastrello” (REW4948)
2. rascla“zappa” Classe di uccelli con il becco a forma di uncino (REW7072)
3. falx“falce” (REW3158; FEW3, 381)
4. *asciata(?) (REW697)
Questa lista può essere integrata con i nomi del cormorano e il pellicano conservatisi nella Romània:
–galic. canilonca“cormorano”, “por su largo pescuezo semejante a una caña”
–sardo argon“pointu”, cfr. anche spa. aguja, cat. agulla, a causa della forma del becco
–ita. spatola(questo uccello sin dai tempi di Aristotele e Fessner è stato scambiato per il pellicano, cfr. l’ita. spatula, paletta, gragullu“id.”)
–rum. cosár“cormorano”, in realtà
La stessa isosemia si può dimostrare tra l’ornitonimo greco pelekanÒj“pellicano” e marra+ suffisso.
In conclusione, non è giustificato trattare separatamente da questo parallelo semantico l’ita. marangone“1. maestro d’ascia, 2. uccello acquatico”, ed è ancora meno plausibile la tesi che l’interferenza linguistica debba, in maniera inevitabile e obbligatoria, rappresentare l’elemento d’unione per così tante forme. È piuttosto probabile che le percezioni proprie della specie homo sapiens abbiano portato a sottolineare gli stessi elementi caratteristici e con ciò a una motivazione identica in greco a nelle altre lingue romanze. Questa ammissione non è nuova; merita però di essere ribadita. Già Buffon aveva fatto notare: la parola cuiller“spatula” in francese (come anche nelle altre lingue neolatine) possiede la stessa motivazione della parola madagascia fanga-liam-bava“bêche au bec” (1770-81; ed. Cuvier, vol. 25, 322). Dunque non vi è alcun motivo per cui in italiano non si possano rivendicare gli stessi principi di denominazione cognitivi della
"Far al figo"
Dal "Vocabolario fraseologico del dialetto bisiac": "Far al figo", inserire il pollice fra l'indice e il medio ripiegati, come il resto delle dita, e rivolgere la mano così chiusa verso qualcuno in segno di disprezzo o di scongiuro. "Fà 'l figo, fà 'l figo che passa la veciastriga". (L'immagine è tratta da uno dei gioielli della Collezione Perusini).
giovedì 20 agosto 2009
La scoperta di una nuova parola bisiaca: la "Pastorela" / lat. Motacilla cinerea
Lo studioso Mauro Casasola, parlando con l'esperto Giorgio Fantin, ha scoperto un nuovo termine, mai riportato nei nostri dizionari dedicati alla parlata bisiaca. Si tratta di "Pastoréla" che indica quell'uccellino, amante dei corsi d'acqua, che in latino è chiamato "Motacilla cinerea". Complimenti ai nostri due esperti di cose bisiache per aver scoperto questo nome così poetico e suggestivo.
martedì 18 agosto 2009
«Portiamo il dialetto bisiaco nelle nostre aule scolastiche»
il Piccolo — 17 agosto 2009
pagina 05 sezione: GORIZIA
Mauro Casasola, 24 anni, poeta che per esprimersi ha trovato naturale utilizzare l'idioma arcaico-veneto bisiaco, autore del "Vocabolario essenziale italiano-bisiac", si tiene alla larga dalla politica, ma, ritiene che la parlata locale avrebbe il diritto di fare il suo ingresso nelle aule scolastiche. Casasola, che si è accollato il non leggero impegno di guidare uno dei presìdi del bisiaco nel Monfalconese quale è l'Associazione culturale bisiaca, non crede che della parlata locale si dovrebbe spiegare la grammatica, impresa del resto forse improba in un'area dove alla popolazione più o meno autoctona si è sovrapposta in questi ultimi anni una forte immigrazione da altre zone d'Italia e dall’estero. Discorso valido soprattutto per Monfalcone e in parte per Staranzano e Ronchi, meno per il resto del mandamento, dove il bisiaco di fatto sopravvive. A scuola, però, secondo Casasola, si potrebbero illustrare storia e tratti salienti della parlata locale, ricostruendo così anche la storia di un territorio e di una città che nascono prima dei cantieri navali, fonte prima dell'immigrazione dall'Istria, dal Quarnero poi dalla Puglia e infine dal Meridione d’Italia, Balcani e Bangladesh. Casasola, ha senso portare l'idioma bisiaco nelle scuole? L'associazione organizza già dei corsi, ma entrare nelle scuole può essere a tutti gli effetti più impegnativo, anche perché ci si deve rapportare con un ambito istituzionale. Dal punto di vista linguistico lo ritengo fattibilissimo, da quello politico potrebbe esserlo meno. Penso al friulano il cui status di lingua è stato riconosciuto, potendo contare quindi su fondi non indifferenti. L'obiettivo dovrebbe essere quello non di insegnare la grammatica, ma effettuare un discorso più aperto sul linguaggio, passando per la storia e la cultura locale. In questo senso mi pare vadano anche le indicazioni del nuovo dirigente scolastico regionale. Un discorso di educazione al bisiaco è fattibile però anche a Monfalcone, dove circa un terzo della popolazione è di recente immigrazione? La composizione della popolazione è senz'altro più variegata, ma introdurre il bisiaco nelle scuole sarebbe un arricchimento comunque, tenuto conto che i putei sono in grado di assorbire moltissime cose e potrebbero quindi imparare anche parole e usi particolari del territorio. A Monfalcone anche i locali parlano ancora bisiaco o no? Poco, perché sono arrivati gli istriani prima e i triestini poi. Mia nonna, bisiaca nata a Monfalcone, parlava il dialetto come lo si parla ancora oggi nei paesi. La parlata che si trova a Pieris e Turriaco, è vero, è difficile scoprirla ancora a Monfalcone, dov'è però non è scomparsa del tutto. Dov'è allora il nucleo forte del bisiaco? A Turriaco, Pieris, Bean, San Canzian e San Piero. Anche Fogliano, ma andando a cercare, perché è vero che tanti non sono orgogliosi del bisiaco e tendono quindi a parlare fuori casa un dialetto triestinizzato. E i ragazzi, chi ha 24 anni come lei, lo parlano ancora? È stata fatta un'indagine da cui risulta che il 60% dei ragazzi interpellati si sente bisiaco, ma di fatto il dialetto lo parla pochino o, meglio, parla un bisiaco ripulito. Può aiutare il coinvolgimento, come avverrà quest'anno, dell'Associazione culturale bisiaca in una manifestazione come Absolute Poetry? Ritengo di sì, anche se lascia un po' perplessi il fatto che l'Associazione bisiaca debba essere messa sullo stesso piano dei sodalizi che si fanno portavoce della minoranza slovena e friulana, che già hanno ottenuto un riconoscimento formale e fondi. Forse si dovrebbe effettuare uno sforzo maggiore per sostenere l'identità più debole, cioé la nostra. (la.bl.)
giovedì 2 luglio 2009
"Cinquanta poesie per Biagio Marin" di Anna de Simone
Un altro riconoscimento per la poesia bisiaca. Lunedì 29 giugno, presso il Centro Studi Biagio Marin di Grado, è stato presentato il volume "CInquanta poesie per Biagio Marin" curato dalla studiosa Anna De Simone di Milano. Il ponderoso volume, come ha sottolineato la presidente del Centro Studi Edda Serra, raccoglie i testi dei maggiori poeti dialettali del Novecento nella cui poesia vi sono echi della frequentazione con l'opera del grande poeta gradese. Anna De Simone, considerata tra i maggiori esperti nazionali di poesia in dialetto ed autrice di una nota biografia di Marin, ha scritto inoltre per l'occasione un lungo saggio introduttivo che è anche una sorta di intenso viaggio poetico che va dall'Istria cantata dal rovignese Zanini fino alla Sicilia di Nino De Vita. Il volume raccoglie difatti cinquanta poesie di autori di varie aree geografiche che vanno da Pasolini a Tonino Guerra, da Franco Loi fino ai più giovani Pier Luigi Cappello ed Ivan Crico. Al bisiaco di Crico la De Simone ha dedicato tra l'altro ampio spazio sia nel saggio introduttivo che nell'ampio apparato bibliografico, sottolineando il decennale lavoro svolto dall'autore di Pieris per far conoscere e salvaguardare questa importante e quasi sconosciuta antica parlata veneta del monfalconese. A questo proposito, oltre a un brano di un saggio della poetessa Antonella Anedda dove si analizzano le potenzialità di questo linguaggio esaltate dalla poesia di Crico, la De Simone ha pensato di riportare anche alcuni stralci del famoso racconto dedicato da Claudio Magris alla Bisiacaria. Il libro vuol essere, come è stato ricordato, anche un valido strumento per gli alunni delle nostre scuole. La bellissima serata ha offerto al numeroso pubblico presente anche l'occasione di ascoltare le letture di alcuni dei più noti poeti viventi in dialetto come il siciliano Nino de Vita, il torinese Remigio Bertolino, i veneti Luciano Cecchinel, Luigi Bressan e Fabio Franzin, il friulano Pierluigi Cappello e il bisiaco Ivan Crico.
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